Il coronavirus potrebbe rappresentare un’opportunità per l’Occidente e l’Europa per diminuire la dipendenza economica e commerciale da Pechino. La riflessione è stata pubblicata sul quotidiano francese Le Figaro, a firma di Nicolas Goetzmann. L’economista, dalle colonne del quotidiano francese mette in discussione il rapporto economico e non solo tra l’Occidente e la Cina e invita l’Europa a ridimensionarne la dipendenza. “L’epidemia globale fa capire agli occidentali la loro profonda dipendenza dalla produzione cinese”, spiega Goetzmann che aggiunge: “Questo aumento di consapevolezza potrebbe essere l’occasione per riequilibrare la globalizzazione”.
Il finanziere, dunque, suggerisce di approfittare della crisi innescata dal coronavirus, e le conseguenze economiche globali che ne sono derivate, per riprendere a far funzionare il mercato interno della produzione, invece che importare dalla Cina che offre manodopera a basso costo (in concorrenza con ogni sistema) e anche in palese violazione di ogni diritto del lavoratore.
“Ci sono volute solo alcune settimane perché la speranza suscitata dalla firma dell’accordo di fase 1, tra Donald Trump e Xi Jinping, sul fronte della guerra commerciale venisse sostituita dalla crisi covid-19 – scrive Goetzmann – Ancora una volta, la globalizzazione affronta una trappola che produce un effetto rivelatore. La graduale dislocazione delle catene di approvvigionamento delle società occidentali mostra che il termine stesso della globalizzazione non sembra più adattato al processo iniziato nei primi anni 2000. La svolta del millennio ci aveva annunciato l’emergere del Brics, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Venti anni dopo, le prestazioni della Cina schiacciano i risultati dei suoi concorrenti. Mentre la Cina è aumentata dal 3 al 16% del Pil globale tra il 2000 e il 2018, nessuno degli altri Paesi considerati può superare la soglia del 4%”. Pechino detiene il 30% della produzione mondiale a totale beneficio interno e a discapito delle società occidentali. La globalizzazione, già nel 2015, ha portato la Cina a produrre l’80% dei condizionatori d’aria, il 70% dei telefoni, il 60% di tutte le scarpe del pianeta. “I rischi economici legati alla crisi covid-19 sono collegati a una forte dipendenza dalle catene produttive di Pechino e agli sconvolgimenti delle sue scelte politiche”.
Il ‘sogno cinese’, forse, rallenta se l’Occidente si risveglia. Ma il risveglio della coscienza più doloroso sarà quello dell’Europa, immersa nella cultura del libero scambio a discapito anche dei suoi interessi politici, mentre parla sempre e ancora di strategie della competitività e del necessario adattamento al mondo così com’è. “Bruxelles, Berlino e Parigi si trovano intrappolate nel loro gioco”.
Del resto Pechino prende, ma restituisce in minima parte. L’Europa esporta in Cina merci per 200 miliardi di euro, ma ne importa per 360. Una differenza dell’80%. Ecco perché Goetzmann auspica un risveglio degli Stati europei teso a riportare in patria la maggior parte della produzione per alimentare il mercato interno e per rendersi indipendenti dalla più grande dittatura mondiale che troppi fingono di non vedere.
Giova ricorda, inoltre, il rischio correlato alla tecnologia cinese, in particolare quello delle reti 5G. Nella relazione che il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, ha presentato al Parlamento a dicembre scorso, il Copasir “non può che ritenere in gran parte fondate le preoccupazioni circa l’ingresso delle aziende cinesi nelle attività di installazione, configurazione e mantenimento delle infrastrutture delle reti 5G. Conseguentemente, oltre a ritenere necessario un innalzamento degli standard di sicurezza idonei per accedere alla implementazione di tali infrastrutture, rileva che si dovrebbe valutare anche l’ipotesi, ove necessario per tutelare la sicurezza nazionale, di escludere le predette aziende dalla attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G”.
Ma le riflessioni dell’economista francese suscitano ulteriori considerazioni. Perché le sinistre europee, che tanto hanno a cuore l’esportazione della democrazia nel mondo e si battono per i diritti e l’ambiente, non scendono in piazza con i loro cartelloni colorati per chiedere ai governi di ridimensionare gli affari con la più grande dittatura del mondo, alimentata al 60% da carbone? Perché non chiedono conto di quello che accade a Hong Kong e della situazione in cui versa la popolazione uiguri? Per quelli, forse, non valgono i diritti umani sbandierati dalle femministe, dagli antifascisti, antinazisti, anti….