Dalle ceneri di Fordow la proposta per una nuova Yalta?
In un suo interessante articolo, apparso il 21 giugno 2025, il direttore dell’NGN, Silvano Danesi, ha giustamente rammentato le parole recentemente pronunciate da Trump a Riad, in Arabia Saudita, nel corso di un discorso tenuto davanti a molti leader arabi della regione:
“È importante che tutto il mondo noti che questa grande trasformazione (del mondo arabo) non è arrivata dagli interventisti occidentali che portano persone in aerei lussuosi a darvi lezioni su come vivere e come governarvi. No, l’architettura scintillante di Riad e Abu Dhabi non è stata creata dai cosiddetti nation builder, dai neocon o dalle ONG di sinistra come quelle che hanno speso migliaia di miliardi di dollari senza riuscire a sviluppare Kabul, Baghdad e molte altre città. […] Alla fine, i cosiddetti nation builder hanno devastato molte più nazioni di quelle che hanno costruito, e gli interventisti sono intervenuti in società complesse senza capire come funzionassero”.
Parole importanti che purtroppo l’estensore del pezzo ha malamente interpretato allorché ha scritto “I neocon a cui faceva riferimento Trump sono i neoconservatori, equamente distribuiti tra Repubblicani e Democratici e considerati longa manus del Regno Unito e i nation builder sono quelli che credevano che, una volta invasi paesi come l’Afghanistan e l’Iraq, sarebbe stato possibile ricostruirli come nazioni stabili e democratiche”, visto che storicamente quello neoconservatore è un movimento politico di origine prettamente statunitense, con caratteristiche di conservatorismo, interventismo e occidentalismo filo-americano, i cui esponenti sono spesso identificati come sostenitori di una politica estera statunitense assertiva, talvolta caratterizzata da un approccio unilaterale e dall’uso della forza militare che non trae alcuna ragion d’essere da quel Regno Unito che l’ultima partita che ha vito è stata quella WWII il cui dopoguerra ha malamente perso come tutti in Europa, per somma riducendosi in più occasioni, a maggior ragione negli ultimi 10/15 anni, a fare da Quinta Colonna in Europa su delega statunitense, a cominciare dalla Brexit.
A questo punto credo che, soprattutto dopo l’attacco sferrato per ordine di Trump ai siti nucleari iraniani nella notte tra il 21 ed il 22 giugno, sia giunta per tutti l’ora di cominciare a prendere atto che Trump, o chi per lui, è decisamente molto più abile di quello che fin troppi ancora credono e vogliono far credere e che la fase geopolitica che si sta per aprire dinanzi ai nostri occhi sarà per molti aspetti diversa da tutto quanto ha caratterizzato la storia globale dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale in poi: una storia all’insegna di una nuova visione imperiale che riporta alla mente la strategia che rese grande Roma: tolleranza verso tutte le forme di governo e tutte le fedi religiose presenti nelle province dell’impero a patto che nessuno si prendesse la briga di violare la pax romana.
In questo senso giunge a proposito quanto ha sottolineato l’alquanto bene informato ed attento osservatore Davide Racca che in un suo pezzo pubblicato il 22 giugno 2025 intitolato “Gli Stati Uniti scendono in campo a fianco di Israele contro l’Iran” ha così testualmente scritto: “Il Pentagono ha voluto colpire solo infrastrutture nucleari –non palazzi governativi, non basi convenzionali– nel tentativo di lanciare (n.d.r. io direi ‘ribadire’) un messaggio: ‘Non vogliamo cambiare il regime, vogliamo chiudere la partita nucleare’”. Un messaggio chiaro che fornisce una conferma a quanto a più riprese ho sottolineato in questi giorni circa la strategia della nuova White House, una strategia di balcanizzazione del MENA, tanto per cominciare, che proceda facendo leva sugli elementi di divisione intestìni alla comunità islamica globale, in senso lato, e locale, in senso stretto.
Nello specifico, poi, quella araba è una nazione affatto coesa composta come è da gruppi oltremodo diversi tra loro e caratterizzati da divisioni intestine di tipo linguistico, nonché economiche alquanto significative e sociali a causa dell’ampia varietà di strutture sociali, –tra cui tribù, clan e famiglie–, che possono influenzare e di fatto hanno influenzato ed ancora influenzano le dinamiche interne e le relazioni tra i diversi gruppi, ancorché residenti nel medesimo Paese, di significatività tale da sfociare spesso e volentieri in veri e propri conflitti intestìni: quei conflitti cui in passato il Profeta cercò di porre rimedio con la sua predicazione senza, per altro, riuscire nell’intento.
Stando così incontrovertibilmente le cose è lecito ritenere che sia stato proprio a partire dalla presa in considerazione dei fatti che hanno portato tanto all’attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre 2023, quanto alla risposta dell’IDF, nonché dalla loro rivisitazione e di quanto ha fatto a tutto questo da corollario, che il Presidente Trump ha ritenuto di procedere da qui in avanti in modo decisamente diverso da quanto posto in essere dai suoi predecessori non tanto per dare un supporto fattivo ad Israele (o almeno non solo per questo) sul lungo termine, quanto piuttosto per porre in essere qualcosa, testandolo, che sia in grado di controbilanciare e contrastare le azioni dei principali attori geopolitici attivi nell’area evitando azioni troppo dirette ed impegnative, ancorché proxy o atipiche, che procedano dall’esterno preferendo puntare sulle contraddizioni interne e che, come tale, richiede la preservazione per ora della attuale leadership di Teheran.
Accanto a questa mossa non possiamo non notare come non a caso Trump abbia ritenuto che in questo preciso momento storico fosse necessario affrontare l’intera questione mediorientale coinvolgendo il Presidente della Federazione Russa, Putin, proponendogli addirittura di assumersi il gravoso compito di mediare tra Tel Aviv e Teheran, facendo così registrare, per somma, un deciso cambio di passo nelle relazioni tra la White House ed il Cremlino foriero, nei suoi palesi auspici, di una nuova Yalta oltremodo gravida, come tutto lascia intendere, di non pochi cambiamenti per il resto del mondo, Europa compresa: una Europa che come il Regno Unito si ritrova in questo frangente significativamente messa alla porta.
In questo contesto le recenti dichiarazioni del Ministro della Difesa italiano, Crosetto, dichiarazioni salutate da molti come l’inizio di una fase di riscatto e di emancipazione dell’Italia dagli USA e dalla NATO, si configurano per lo più come il maldestro e quasi disperato tentativo di comunicare a chi di dovere che il suo Governo sposa ancora il Lodo Moro, anche se, di fatto, in un contesto di ulteriormente ridotta sovranità nazionale, con buona pace della Premier Meloni che in queste ore cruciali si è ritrovata ad essere del tutto ignorata, come del resto il Premier britannico, il ciarliero Presidente francese Macron, il neoeletto Cancelliere tedesco, la Presidente della Commissione Europea e persino il pressoché, al momento, superfluo Segretario Generale della NATO.
D’altro canto in questa fase non migliore destino è toccato allo stesso Netanyahu cui è stato recentemente impartito l’ordine perentorio della Casa Bianca di non colpire Khamenei: una disposizione che perfino l’attacco USA a Fordow ed agli altri due siti nucleari non ha mutato di una virgola e che il Premier israeliano ha dimostrato di aver compreso allorché ha ripetuto “Prima viene la forza, poi la pace”, una pace che, come detto, si prospetta tutta all’insegna di una prossima balcanizzazione di matrice endogena che per il MENA dovrebbe passare per la stimolazione indiretta della contrapposizione tra la Jihad religiosa di Teheran e quella politica incarnata da al-Joulani: l’una Sciita e l’altra sunnita.
Altro fattore collaterale di stabilizzazione dell’area nel senso auspicato da Trump, é giunto con il primo autogol di Teheran ad attacco israelo-statunitense concluso: la chiusura dello stretto di Hormuz che contribuirà non poco ad alienare ulteriori simpatie all’Iran per l’enorme danno economico arrecato al commercio globale. Un qualcosa qualcosa che farà da stimolo per Mosca e Beijing che si troveranno di necessità costrette ad impegnarsi per contenere il fanatismo dell’establishment iraniano e la sua politica di supporto al terrorismo internazionale.
Quello che, piaccia o non piaccia, sembra profilarsi all’orizzonte è un nuovo modo di gestire la politica estera certamente non neocon nella forma, ma non nella sostanza, posto in essere da un Trump che –lo dico con il dovuto rispetto– con grande faccia tosta e non minore capacità comunicativa sta palesemente cercando di rifarsi una verginità politica rispetto ai trascorsi della passata sua presidenza, assumendosi legittimamente pure l’onere di farsi carico del prezzo politico da pagare al chirurgo estetico mediatico chiamato in causa per il ripristino della illibatezza politica degli USA per tutto quanto di loro stretta competenza, in senso lato, nello scacchiere mediorientale e, a quanto pare, non solo.
Un impegno che nel caso della Federazione Russa non potrà non essere fattivo per varie ragioni tra le quali, non ultima, quella di far dimenticare le indubbie responsabilità politiche del Cremlino che non meno della White House si sono adoprate per rendere l’intero Medio Oriente uno dei terreni di elezione dello scontro geopolitico dai tempi della Cold War sino ad oggi.
Una instabilità la cui genetica, vale la pena sottolinearlo, è tutta britannica, ovverosia di quel Regno Unito la cui colpa per quanto attualmente in essere è stata quella di aver storicamente promosso, dopo averne contrastato la costituzione fino al punto di entrare in conflitto aperto con quanti -Ebrei- in Palestina si portavano per fuggire dal ben poco accogliente continente europeo, dello Stato di Israele al solo scopo, con la piena e fattiva collaborazione degli Stati Uniti, di creare i presupposti per una destabilizzazione del Medio Oriente di portata tale da guadagnarsi il dubbio diritto di rientrare, a tempo debito, passando per finestra aperta -ad esempio- da qualche mandato ONU in quella stessa ‘stanza’ da cui erano stati costretti ad uscire passando dalla porta principale ben 77 anni fa.
Non è infatti un caso che il Protettorato britannico sulla Palestina ebbe fine il 14 maggio 1948, in altri termini lo stesso giorno in cui si ebbe la proclamazione della nascita dello Stato di Israele.
Questa data segnò l’inizio di quel nuovo capitolo nella storia della Palestina, segnato dalla guerra arabo-israeliana del 1948 ed i cui passaggi chiave furono i seguenti:
- 29 novembre 1947: l’Assemblea Generale dell’ONU approva il Piano di Partizione della Palestina, che prevede la divisione della regione in uno stato ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale;
- 14 maggio 1948: il Regno Unto annuncia ufficialmente la fine del proprio mandato sulla Palestina;
- 14 maggio 1948: David Ben-Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele a Tel Aviv.;
- 15 maggio 1948: inizia la prima guerra arabo-israeliana, con gli Stati arabi vicini che attaccano il nuovo stato di Israele facendo sì che la già in corso guerra civile si mutasse in una guerra fra Israele e gli Stati arabi vicini che produsse l’esodo palestinese.
Un progetto, quello britannico, che si rivelò ben presto destituito di ogni fondamento grazie al fatto che gli USA adottarono in M.O., mutatis mutandis, la stessa strategia adottata in Indocina contro i Francesi non tanto per inimicizia verso i Britannici ed i Francesi, quanto piuttosto ravvisando l’incapacità di questi due soggetti politici di fronteggiare l’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nella Cold War in corso: una Cold War che è probabile volga finalmente al termine anche se, a quanto pare, a beneficiarne ben poco saranno le pedine di quel gioco che nei decenni passati tanti morti ha causato, con buona pace delle retoriche sul Nuovo Ordine Mondiale multipolare ed amenità del genere.