Il Referendum del 4 dicembre si può definire il primo “referendum social”. Nell’era concentrata sulla realtà virtuale, più che su quella fisica, anche i politici nostrani cedono alla tentazione di trovare con i cittadini un collegamento diretto, mostrando ciò che fanno e cercando consensi. Facebook, Twitter, Instagram e così via hanno creato un vero e proprio canale, una corsia preferenziale per i tanti che, come i politici, hanno bisogno del sostegno popolare. C’è chi manda la diretta Facebook e chi preferisce esprimere un parere scritto. Il banco di prova è senza dubbio questo referendum, perché le nozioni e i tecnicismi sembrano più semplici spiegati in 160 caratteri.
Tutto, come sempre, è iniziato oltreoceano, quando l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama, cominciò a usare Facebook per la sua campagna elettorale. Una scelta risultata vincente. In Italia, poi, il Movimento 5 Stelle è stato il primo ad adottare lo stesso tipo di comunicazione per accrescere quella popolarità raggiunta poi nell’arco di pochi mesi. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, utilizzando sicuramente un linguaggio diverso dal partito pentastellato, ha trovato, anche lui, un seguito non indifferente.
Va da se che con il referendum in vista ogni partito o singolo politico, utilizza i social per informare o disinformare, dipende dai casi, gli utenti che poi andranno a votare. A colpi di tweet nessuno si risparmia. Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Ignazio La Russa, Renato Brunetta, Alessandro Di Battista e tantissimi altri sono ogni giorno in prima linea a ‘postare’ il loro pensiero. Attacchi duri, a volte durissimi contro l’opposizione, offese, accesi dibattiti: tutto online. Sembrerebbe essere un nuovo modo di fare politica.
Spesso i cittadini, o meglio gli utenti, credono che dietro ai post e ai commenti ci sia veramente il politico in carne e ossa pronto a rispondere. Sapere che non è così rovina il fascino. Il mito è da sfatare, perché non è sempre così. Negli ultimi anni è emersa una figura professionale nuova, nata per questo: il social media manager. Impensabile che i politici, con tutto quello che devono fare, trovino il tempo di chattare e per questo vengono assunti ragazzi, per lo più giovani, che si occupano della comunicazione sui Social.
Eppure è questa la loro forza, la convinzione di avere dall’altro capo del pc o smartphone il premier Renzi in persona a risponderti e non un ragazzo che fa questo lavoro. Il referendum non può che essere l’esperienza che corona tutto questo discorso. Ogni mattina un utente X può seguire su Twitter, il social preferito per messaggi brevi e importanti, dibattiti e spiegazioni dei vari punti della riforma Boschi. Ovvio che la nascita dei Comitati per il SI e per il No dà grande traffico di notizie. Tante informazioni non vuol dire però giuste informazioni. La lotta continua tra ‘Vota si così cambieremo tutto’ e ‘Vota no perché le cose devono andare diversamente’, crea spesso confusione e le giuste nozioni rischiano di essere risucchiate dal mondo virtuale. Un po’ come le elezioni in Usa, il referendum è quasi più combattuto su Twitter che alla Camera. Ciò che è sicuro è che su 10 persone che andranno a votare, almeno 8 sono in possesso di un account social e avrà seguito, anche se in mezzo alla confusione, i risvolti politici seduto in metropolitana mentre andava a lavoro.