Il 13 giugno dei molti nemici dell’Iran
L’attacco sferrato il 13 giugno 2025 da Israele all’Iran, che tanto sta facendo discutere, presenta degli aspetti a dir poco interessanti per la non congruità delle dichiarazioni ufficiali con i fatti: fatti che mettono in evidenza come questo attacco ai siti nucleari iraniani sia stato di fatto benedetto da molti degli attori regionali quali la Siria, la Turchia, l’Iraq e l’Arabia Saudita a prescindere dalle pubbliche dichiarazioni.
Tra tutte merita sicuramente quella, resa nota il 15 giugno da Al Arabiya riprendendo quanto riportato il giorno precedente dalla Saudi Press Agency – SPA, del Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che, a quanto pare, nel corso di una telefonata con il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, avrebbe ribadito la condanna e la denuncia del Regno per gli attacchi israeliani contro l’Iran, affermando che gli stessi avrebbero “interrotto” il dialogo volto a risolvere la crisi, per somma minando “la sovranità e la sicurezza della Repubblica islamica dell’Iran”, oltretutto configurandosi come “una violazione del diritto e delle norme internazionali”. Ed ancora, sempre il Principe ereditario avrebbe sottolineato “il rifiuto del Regno dell’uso della forza per risolvere le controversie”, sostenendo “il dialogo come principio fondamentale per risolvere le divergenze”. Parole che Pezeshkian sembra abbia accolto esprimendo il suo apprezzamento per “la posizione del Regno nel respingere e condannare l’aggressione israeliana”.
Parole forti cui hanno fatto eco quelle, che merita leggere fra le righe, rese note lo stesso giorno da TRT Global riprendendo una dichiarazione della Direzione delle Comunicazioni della Turchia, parole caratterizzanti la conversazione telefonica del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan con il Principe ereditario saudita al fine di discutere delle crescenti tensioni tra Israele e l’Iran, oltre che –ed è questo che più conta– di questioni regionali e globali più ampie.
Per l’occasione, durante tale conversazione il Presidente Erdogan non avrebbe perso l’occasione per richiamare l’attenzione sul fatto che, a suo dire, Israele, sotto la guida del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, rappresenterebbe la “più grande minaccia per la stabilità e la sicurezza della regione”: un fatto questo che a suo dire sarebbe stato “dimostrato ancora una volta attraverso il recente attacco di Israele contro l’Iran”: una preoccupante circostanza che fa si che sia palese la necessità di fermare Israele “per ridurre le tensioni”.
Merita non poco qui sottolineare come lo stesso Erdogan abbia criticato, nel corso della stessa telefonata, la comunità internazionale per “aver chiuso un occhio sull’occupazione e sul genocidio in Palestina”, affermando che questo silenzio ha incoraggiato le azioni “illegali e aggressive” di Israele aggiungendo che l’attacco di Israele contro l’Iran – nel mezzo dei colloqui di riconciliazione nucleare tra gli Stati Uniti e l’Iran – sarebbe stato un tentativo di minare gli sforzi di pace, oltretutto con una azione che avrebbe causato perdite nucleari che a maggior ragione si costituiscono prova tangibile ulteriore del fatto che quella di è una “minaccia irresponsabile alla sicurezza regionale e globale”.
Tutto come da copione in quello che a breve, dati alla mano, apparirà essere una delle peggio riuscite messe in scena dell’antisemitismo globale che in questa circostanza ha toccato il suo massimo allorché Erdogan ha avvertito che la regione non potrebbe sopportare un’altra crisi, sottolineando che una guerra su vasta scala potrebbe innescare ondate di migrazione irregolare e che la disputa nucleare dovrebbe essere affrontata attraverso negoziati continui.
Un concetto espresso palesemente per giustificare il fatto che nessuno muoverà un dito per l’Iran così come per Gaza e nel contempo far ricadere su Israele tutta la responsabilità di quanto avvenuto e da qui in avanti avverrà con buona pace di tutti i grandi attori.
A tanto si perviene dando una semplice occhiata alla carta geografica della regione per valutare, cosa che pare pressoché nessuno abbia fatto con metodo, le possibili rotte adoperate dagli aerei dell’IAF per giungere sugli obiettivi oggetto dell’attacco, rotte che di fatto non possono non aver comportato il coinvolgimento della Giordania, già precedentemente impegnata al fianco di Israele nel contrasto dei lanci di missili diretti verso Israele in occasione dei precedenti attacchi condotti dall’Iran, come pure dei già menzionati Turchia ed Arabia Saudita, per assurdo che la cosa possa apparire alla luce delle dichiarazioni testé riportate.
A conti fatti, infatti, quattro risultano essere per logica le rotte, per così dire papabili, che qui possiamo così declinare:
- Rotta n°1 lungo la direttrice Israele, Giordania, Arabia Saudita (lungo il confine iraqeno), quindi Iraq ed ingresso in Iran via Bassora
- b)Rotta n°2 lungo la direttrice Israele, Giordania, Iraq e quindi Iran: la più diretta
- Rotta n°3 lungo la direttrice Israele, Mediterraneo Orientale, Turchia (lungo il confine siriano), quindi Iran: la rotta più a nord, ovvero, in alternativa
- d)Rotta n°4 lungo la direttrice Israele, Siria, Turchia, quindi Iran
come si evince facilmente grazie al semplice impiego della funzione “Playback” di Flightradar24, la ben nota applicazione che consente, scelta la data e l’ora, di visualizzare i voli in quel preciso specifico momento.
Selezionando il giorno 12 giugno e le ore 23:00 locali, per finire alle ore 04:00 del 13 giugno 2025, si arriva ad evidenziare , con una scansione di 30 in 30 minuti, la formazione delle finestre di attacco di cui sopra come è possibile vedere nella foto di apertura che descrive la situazione alle ore 03:00 del 13 giugno a partire da una situazione iniziale quale quella qui poc’anzi proposta nella seconda immagine che fa riferimento al regime del traffico aereo alle ore 00:00 del medesimo giorno.
Questo indubbio successo militare è giunto solo dopo molti anni, anni in cui ha dovuto accettare l’accordo sul nucleare iraniano dopo essere stato colui che aveva sfidato Barack Obama allorché ebbe a contestarne in pieno Congresso l’apertura nei confronti dell’Iran rimanendo per anni internazionalmente isolato, per somma con una capacità di persuasione decisamente incrinata anche quando legittime erano le sue preoccupazioni.
Sulla questione iraniana Netanyhau ha pagato a caro prezzo i molti, dai più ritenuti troppi, suoi “NO” a qualsivoglia concessione alla leadership palestinese di Mahmud Abbas (Abu Mazen) nonostante lo stesso già all’epoca sollevasse la pesante accusa rivolta ad Hamas, recentemente ribadita, di voler dare vita ad uno stato islamico, come pure le polemiche contro un’Europa accusata, viene da dire a ragion veduta, di “filo arabismo”.
Alla fine quell’Iran, –che ancora nel 2015 veniva considerato una sua ossessione al punto di indurre Netanyahu ad affermare che mai e poi mai Israele avrebbe sostenuto una campagna militare contro lo Stato Islamico se questo avesse rappresentato il presupposto di un rafforzamento del regime di Teheran–, ha finito per creare negli anni, motu proprio, tutti i presupposti per giustificare il perseguito a lungo obiettivo del Premier israeliano di colpirlo con vigore, allorché lo stesso Iran ha pensato bene di costituirsi come una minaccia vera e propria pure per gli Stati arabi della regione, e tra questi in primo luogo per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, nonché per quella Turchia che in Teheran ha finito per vedere il più grosso ostacolo al ripristino della propria leadership quale Potenza regionale del MENA, come pure alla sua costituzione quale hub energetico di primaria importanza.
Per diversi anni la questione iraniana da molti in Occidente è stata considerata come una vera fissazione di un Netanyhau la cui vittoria a sorpresa alle elezione del marzo 2015 venne ascritta al sentimento oltremodo diffuso nella maggioranza dell’opinione pubblica israeliana di insicurezza e di diffidenza verso un mondo, non solo arabo e musulmano, ritenuto ostile e per affrontare il quale molti osservatori, anche accreditati, ritennero che il Premier non avesse affatto delineato una strategia essendosi limitato a riattualizzare i veri e propri demoni dai quali era ossessionato, demoni quali la Shoah ed il timore di un secondo Olocausto, questa volta nucleare: una paura che ha preso storicamente maggiore forma e consistenza dopo l’accordo di Vienna del Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) con l’Iran.
Per anni ed anni la leadership politica guidata da Netanyhau è stata stigmatizzata così come demonizzata è stata la sua proposta di una opzione militare che risultava essere un’arma spuntata in quanto contraria agli interessi da quell’alleato statunitense che fin troppo ingenuamente ha pensato di poter gestire i Paesi Arabi della regione sottovalutandone le leadership e le loro indubbie capacità diplomatiche e manipolative della pubblica opinione occidentale.
Il più grosso errore commesso all’epoca della sottoscrizione dell’accordo sul nucleare iraniano fu in primo luogo comunicativo, come ben testimoniano le parole pronunciate dall’allora viceministro degli Esteri israeliano, Tzipi Hotovely, che così commentó l’accordo: “Questo accordo è una resa storica da parte dell’Occidente verso l’Asse del Male con l’Iran in testa” ed ancora “Lo Stato di Israele agirà con tutti i mezzi per tentare di impedire la ratifica di quell’accordo”.
Parole formalmente intrise di un messianismo ben poco in linea con il laicismo linguistico in voga in Occidente soprattutto se pronunciate da un Ebreo e rivolte ad un Occidente inquinato pesantemente da pregiudiziali antisemite vecchie di secoli rese ora presentabili spacciando il tutto per antisionismo e, purtroppo per Tel Aviv, sdoganate ulteriormente da dichiarazioni quale quella resa, sempre all’epoca, dall’allora Ministro dell’Istruzione, Miri Regev, che ad Hotovely fece eco dicendo: “L’Iran ha ricevuto licenza di uccidere”. Ed ancora “Il fatto che a Teheran si festeggi dimostra che si tratta di un accordo negativo per il mondo libero e per l’umanità”.
L’errore di Netanyhau in definitiva è stato quello di non rendersi conto che i suoi migliori alleati non doveva cercarli, almeno in quel frangente, oltreoceano bensì tra le petrol–monarchie del Golfo, tra i cosiddetti sconfitti di Vienna, ovverosia in primo luogo in quell’Arabia Saudita sunnita il cui silenzio, quanto all’accordo di Vienna, aveva reso conto meglio di qualsiasi parola del fastidio provato nel vedere lo sdoganamento di quell’Iran sciita cui il tutto aveva di fatto dato il via libera ad agire da protagonista nei vari scenari del cosiddetto Grande Medio Oriente (dalla Siria all’Iraq, dalla guerra all’ISIS all’Afghanistan).
Detto per inciso, da un certo punto di vista la politica dell’attuale Casa Bianca a guida Trump, che sembra puntare sulla contrapposizione tra Sciiti e Sunniti per portare avanti la propria strategia globale, altro non è che una riproposizione rivisitata di quanto già posto in essere da Tel Aviv per procedere sulla via del contenimento di Teheran nonostante gli esiti fallimentari di tutta la politica mediorientale di Barack Obama e le ancora più a dir poco lacunose rendicontazioni degli analisti occidentali.
In questo senso è interessante notare come nel 2015, perfino sulla solitamente autorevole rivista di geopolitica Limes, Umberto De Giovannangeli abbia stigmatizzato la posizione di Netanyhau e, per contro, non abbia di fatto manco preso in considerazione dichiarazioni come quella rilasciata, mentre erano ancora in corso nel 2015 i negoziati sul nucleare, dal comandante della forza paramilitare Basij, Mohammad Reza Naqdi, per ribadire che per l’Iran la distruzione di Israele era “non negoziabile”.
Così, infatti, il summenzionato De Giovannangeli in un articolo, dal significativo titolo “Le manovre di Israele contro un Medio Oriente ‘normale’”, apparso su Limes nel 2015:
“Khamenei, Assad e prima di loro Ahmadi-Nejad, Assad padre, Saddam Hussein… sono una rassicurazione per l’Israele che vive nella paura e che si nutre di paura. Finché a comandare saranno loro, nulla cambierà. Per coloro che a Gerusalemme hanno come unico orizzonte politico il mantenimento perpetuo dello status quo, i veri nemici sono i giovani iraniani, come lo erano i loro coetanei di Piazza Tahrir, perché non sono animati da un odio antisionista, non bruciano bandiere con la stella di David. Chiedono “normalità”, la globalizzazione dei diritti. Per tutti”.
“È proprio l’idea di normalità a fare davvero paura ai seguaci del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, ai propugnatori di Eretz Israel, a quanti non hanno smesso di coltivare una visione messianica del ruolo del popolo ebraico e del suo focolaio nazionale nel mondo.Una linea che ha assestato ferite mortali al sogno sionista – quello di un Paese “normale” – molto più che la minaccia nucleare di Teheran”.
Fonti:
https://trt.global/italiano/article/a628368c2f20
https://trt.global/italiano/article/a628368c2f20
https://trt.global/italiano/article/a628368c2f20
https://www.limesonline.com/limesplus/iran-e-usa-un-intesa-sul-nucleare-malgrado-tutto-14671718/
https://x.com/tzipihotovely/status/620861800628682752?s=61
https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/miri-regev-calls-deal-a-license-to-kill/
https://www.timesofisrael.com/world-powers-nuclear-deal-with-iran-july-14-2015/
https://indianexpress.com/article/opinion/columns/a-prize-for-bad-behaviour/