I rapporti diplomatici tra Turchia e Germania non potrebbero essere peggiori. Ed anche le relazioni del Paese della Mezzaluna con gli altri membri dell’Unione europea sono ormai logore, nonostante i proclami di amicizia ed unità (seppur con riserva) che arrivano da Bruxelles. Logorio che, in qualche modo, mette a rischio il trattato Turchia-Ue sui migranti, firmato solo un anno fa. Un trattato che non è mai entrato a regime, e potrebbe ricevere proprio da Ankara la spallata finale necessaria a farlo crollare del tutto.
Dopo essersi dedicato al braccio di ferro con i Paesi Bassi del neo confermato Primo Ministro Mark Rutte, la scure diplomatica del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, si è abbattuta contro la Germania di Angela Merkel, con cui la tensione è ormai altissima da diversi giorni. La colpa tedesca è la stessa di quella dei cugini olandesi, aver proibito diversi comizi a sostegno del Sì al referendum che si terrà in Turchia il 16 aprile, dove si deciderà se trasformare o meno la democrazia parlamentare creata da Atatürk in un regime decisamente più presidenziale, investendo di conseguenza lo stesso Erdoğan di molti più poteri.
La reazione di Ankara alla decisione della Germania
La reazione di Ankara non è stata propriamente gentilizia: dopo aver definito il divieto una “pratica nazista”, il presidente turco ha accusato la cancelliera Merkel di appoggiare il terrorismo, dopo che alcune bandiere del Pkk (il partito dei lavoratori curdo, considerato un’organizzazione terroristica in Turchia come in Europa) sono sono apparse in un corteo di curdi lo scorso sabato, ricordando pubblicamente durante un discorso di come il giornalista tedesco di Die Welt Deniz Yücel, arrestato poche settimane fa in Turchia, sarà processato per terrorismo. Secondo Peter Altmaier, capo della cancelleria federale e portavoce di Angela Merkel, la Germania “difenderà il suo onore”, definendo gli epiteti inaccettabili, ma giudicando il trattato Ue-Turchia sui migranti come “non a rischio”. Un trattato che, ad un anno dalla sua sottoscrizione da entrambe le parti, mostra il fianco a quelle che sono le sue intrinseche debolezze. E spinge in maniera sempre più decisa Ankara a far saltare il banco.
Lo scontento turco
I motivi dello scontento turco nel merito del trattato hanno molteplici facce, e una di esse è sicuramente il denaro sonante. In effetti, la maggior parte dei 6 miliardi di euro di aiuti economici promessi dall’Unione sono finiti ben lontani dalle casse dello Stato turco, nelle mani di diverse organizzazioni non governative indipendenti, in un tentativo dell’Ue di assicurarsi che queste risorse venissero effettivamente utilizzate per i fini umanitari per i quali erano destinate. In verità, tuttavia nemmeno a proposito degli altri punti dell’accordo i turchi si dicono un granché soddisfatti. Da un lato, infatti, i progressi per formare un’unione doganale tra la Turchia e l’Unione europea sono stati praticamente nulli. Dall’altro nessun passo avanti è stato fatto nella direzione dell’abolizione del regime dei visti per i cittadini turchi in visita nell’area Schengen dell’Unione, complice il fallito colpo di stato di luglio ed il sempre crescente criticismo verso l’ogni giorno più marcato ed invasivo autoritarismo di Erdoğan, insieme alla sempre viva minaccia terroristica nel paese ad opera Stato Islamico o indipendentismo curdo.
Ma anche sul lato europeo le cose non sembrano essere cambiate di molto. A partire dalle continue denunce di varie Ong ed organizzazioni internazionali circa le condizioni inumane a cui sono sottoposti i rifugiati in attesa nei centri di accoglienza o detenzione sparsi per le varie isole greche dell’Egeo, anche guardando i soli i freddi numeri la realtà appare di un immobilismo agghiacciante. Secondo l’ultimo report della Commissione europea in materia, infatti, sono stati solo 3.919 i richiedenti asilo ricollocati in Europa nel rispetto del trattato con la Turchia. Trattato peraltro abbastanza singolare, prevedendo solo scambi “uno contro uno”: un richiedente asilo viene accettato e trasferito in Europa per ogni migrante rimandato in Turchia da una delle isole greche.
E c’è di più. A guardare i dati dei 3.919 richiedenti asilo ricollocati in Europa emerge un elemento preoccupante: 1.406 di essi, più di un terzo, è stato di fatto accolto in Germania, mentre solo 13 Paesi su 28 hanno di fatto ratificato l’accordo con il paese della Mezzaluna. Un numero scoraggiante, confrontandolo con le trionfalistiche prospettive iniziali declamate in pompa magna da Bruxelles solo un anno fa, quando si vaticinavano numeri intorno alle 150.000 persone accolte in Europa (ed altrettante di conseguenza rimandate in Turchia).
Il fallimento del Trattato
Un fallimento mascherato dietro proclami di “successo” del trattato, che si dimostra essere però il fragile velo dietro il quale Bruxelles tenta di coprire le proprie debolezze e l’assoluta mancanza di potere coercitivo e contrattuale sui suoi membri, fondamentalmente liberi di decidere in autonomia di scaricare il peso (umanitario ed organizzativo) dell’intera crisi migratoria sui paesi più geograficamente esposti proprio dalle regole che l’Europa stessa si è data a Dublino. Il sintomo di un problema strutturale, che il presidente turco sta abilmente usando per mettere pressione all’esterno, agitando lo spettro della guerra di civiltà in un gioco fondamentale per la politica del suo governo. Vincere il referendum, e poi forse tornare a parlare con l’Europa: questo l’imperativo di Ankara in questi giorni. Sbattere i pugni, col rischio di far saltare il tavolo. E forse iniziare a giocare, dopo il 16 aprile, una nuova partita.