Russia, Usa, Cina, Egitto, Turchia, i maggiori Stati dell’Unione Europea. Tante potenze sono interessate alla Libia, ma non c’è un accordo definitivo per trovare una soluzione al caos che imperversa nel Paese. Se lo Stato nordafricano è vessato dal terrorismo e da lotte intestine senza precedenti, le maggiori potenze internazionali sono invece attive in una stucchevole guerra di posizione. La situazione libica è semplicemente conseguenza dell’assenza di un’intesa tra gli attori in campo.
In Libia c’è un governo designato riconosciuto dall’Onu da oltre un anno. Ma il riconoscimento internazionale è solo formale. La Russia, ad esempio, briga con il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, Kalifa Haftar. La scorsa settimana il generale è stato a Mosca per la seconda volta in appena sei mesi, ricevendo attestati di incoraggiamento direttamente dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «Apprezziamo il vostro ruolo nella difesa dell’indipendenza dello Stato e l’unità del suo territorio – ha detto il ministro ad Haftar – constatiamo la profondità della vostra comprensione delle relazioni in difesa della sovranità e sulla necessità di sconfiggere i terroristi». Eppure l’esercito di Haftar è riconosciuto soltanto dal governo di Tobruk, ma non da Tripoli e neppure, formalmente, dall’Onu. È un esercito parallelo a quello del governo di unità nazionale designato, al punto che l’ex premier del governo di Salvezza libico, Khalifa Ghweil, ha chiesto di processare il generale Haftar in quanto «golpista che ha commesso crimini contro il popolo libico e per questo va portato in tribunale». Parlando nel corso di un’intervista all’emittente televisiva “al Jazeera”, Ghweil ha spiegato che «le istituzioni militari non possono restare nelle mani di una persona sola. La nostra posizione nei confronti di Haftar non cambia. Noi lo consideriamo un golpista che va processato».
Ma, pur di restare in sella e cercare di non far naufragare del tutto il progetto di un unico governo libico (e soprattutto di un unico esercito), il premier designato Al Serraj, ha invece offerto una sponda ad Haftar. «È necessaria una collaborazione piena con il parlamento e le istituzioni militari – ha detto Serraj – ed è necessario un dialogo tra tutte le parti in causa per combattere il terrorismo insieme. Dobbiamo avviare un processo di comprensione tra di noi per il bene della Libia e per salvarla dalle crisi in corso. Siamo disposti a dialogare con tutte le istituzioni del paese e le forze politiche». Del resto – secondo quanto è trapelato – nell’incontro di Mosca tra Haftar e la diplomazia russa, l’amministrazione Putin si è detta disponibile ad offrire armi all’ex generale di Gheddafi e persino di costruire una base militare russa sulle coste di Bengasi. Si tratterebbe di una struttura di unità navali ed aeree impressionante che metterebbe Haftar in un’assoluta condizione di predominanza. Un’ipotesi che però è ancora lontana perché, almeno per il momento, in Libia vige un embargo per le armi che quindi non potrebbero essere introdotte nel Paese. Poi, come ogni cosa che accade in Libia, il limite tra ciò che non è permesso e ciò che poi invece si realizza è piuttosto labile. La Russia in questo sta semplicemente cercando di ottenere una posizione privilegiata nel Paese, così come ha già fatto in Siria sostenendo il governo di Assad. Un protagonismo che è diventato ancora più evidente in questo periodo di transizione del governo statunitense che attende ancora l’insediamento del neopresidente Trump per comprendere quali indirizzi daranno gli Usa in tema di politica estera. Cosa farà Trump? Cercherà un accordo con Putin oppure tenterà di ostacolare il neo-imperialismo russo? Interrogativi che diventano cruciali non solo per il destino che attende la Libia.
Intanto, se la politica libica versa da anni in uno stallo imbarazzante, prosegue però l’offensiva occidentale contro il terrorismo dell’Islamic State e del jihad internazionale. Qualche giorno fa sarebbe stato ucciso, in un raid aereo condotto dalle truppe francesi, il terrorista di origini algerine Mokhtar Belmokhar. L’uomo – anche secondo conferme giunte dalla Cia – sarebbe rimasto morto in Libia. Belmokhtar è considerato il capo del gruppo jihadista filo qaedista al-Murabitun. Ma non è la prima volta che Belmokhtar viene dato per morto. E, in attesa di comprendere quali sviluppi diplomatici ci saranno, il popolo libico versa sempre più in uno stato di povertà e insicurezza. Ma la comunità internazionale, più che la diplomazia, sembra impegnata in una Royal-Rumble, proprio come in un incontro di wrestling in cui sarà difficile che ne esca un reale vincitore.