Oreshnik, perché solo ora? Gli Usa e la guerra che verrà.
Alla fine, comunque la si voglia metter, si arriverà –pro tempore nelle desiderata di Kyiv– alla spartizione dell’Ucraina perché questa è attualmente l’unica soluzione possibile, piaccia o non piaccia, anche se tutto lascia intendere che questo non vorrà dire la fine della guerra perché non è questo ciò che vogliono gli Stati Uniti che stanno solo usando l’Ucraina ed il loro principale referente politico a Kyiv, il Presidente Volodymyr Zelensky, per cambiare le carte in tavola e preparare il prossimo conflitto con Mosca in una forma allargata contemplante, eventualmente, il diretto coinvolgimento di quegli Europei che da oggi in poi dovendo pensare non poco, sia pure obtorto collo, a provvedere alla propria difesa costituendosi a vario titolo volano di eccellenza della attualmente decisamente fiorente industria bellica d’oltreoceano.
Il cambio attuale di strategia, a ben guardare, non solo appare perfettamente in linea con quanto promesso da Trump ai suoi elettori e al mondo, ma lo è pure con le desiderata di quanti al Pentagono, nei Servizi ed al Congresso puntano, più che su una nuova guerra di vasta portata, ancorché regionale, su un perdurante stato di tensione per poter risollevare il Paese e farlo uscire dalla palude di una crisi economico–finanziaria che potrebbe minare perfino la stabilità stessa degli Stati Uniti.
A questo proposito forse varrebbe la pena di ricordare che il neoeletto Presidente Trump, il leader del MAGA, non ha mai mostrato molta simpatia per l’Europa sognata dai veri europeisti nostrani e non meno di Biden ha sistematicamente puntato a destabilizzarne i Governi con un occhio particolarmente attento a prevenire le scelte e le strategie di quelli maggiormente inclini a perseguire gli antichi obiettivi, magari favorendo la presa del potere da parte dei movimenti populisti locali, così in Italia come pure in Francia ed in Germania, per puntare a dividere chi si vuole sì uniti, ma solo nella NATO e sotto il diretto controllo statunitense.
Da qui, ad esempio, il recente non casuale apparentamento di Trump al “dissidente” della famiglia Kennedy: quel Robert F. Kennedy Jr. di cui sarebbe qui il caso di ricordare un certo discorso tenuto a Berlino il 29 Agosto 2020, allorché –pur tra i mille distinguo in apparenza più o meno condivisibili, seppure viziati dai toni accesi di un certo complottismo che poco e male si concilia con il fare vera informazione (ché se nutrire alcuni sospetti é legittimo, non così dicasi del lanciare accuse non circostanziate suffragate da prove e dati oggettivi evitando l’uso alquanto improprio di espressioni razziste ed antisemite)–, di fatto, invitò le piazze europee –e tra queste pure quelle di una Germania inquinata da pericolosi revanscismi di una certa destra nostalgica– a volgersi decisamente contro i propri Governi additandoli quali nemici della libertà e della democrazia.
Lo fece populisticamente, quindi, cavalcando l’onda delle proteste nate, giuste o sbagliate che fossero, ai tempi dell’introduzione delle norme restrittive da quei Governi adottate per via della incombente pandemia, nonché con l’uso di parole se non altro inopportune e fuori luogo, seppure per certo funzionali ad una politica che per quello che riguarda l’Europa tutto lascia presupporre continuerà con Trump in perfetta sintonia con quella di Biden, che si è a sua volta riallacciata a quella del suo predecessore: a riprova del fatto che ben poca differenza fa, ha fatto e farà per gli europei che alla Casa Bianca sieda un Democratico o un Repubblicano.
Se a questo, poi, aggiungiamo una adeguata rivisitazione critica dei fatti che in un recente passato hanno condotto alle ben note sommosse che hanno messo a dura prova l’establishment francese (fatti analizzati in lungo articolo pubblicato in tre parti su il Nuovo Giornale Nazionale il 18, il 19 ed il 20 Agosto 2023 con il titolo “Parigi brucia, ma l’incendiario chi è?“, articolo che illustra quel certo tipo di strategia surrettiziamente adottata anche della Casa Bianca che, alla fine indusse la Germania di Angela Merkel e la Francia di Emmanuel Macron a sottoscrivere in tutta fretta, con ben cinque anni di anticipo, il Trattato di Aquisgrana), per certo sarà possibile capire il perché di molte delle cose che sono accadute, stanno accadendo e presumibilmente accadranno in un prossimo futuro in Europa, in senso lato, ed in Ucraina nello specifico.
Tanto a cominciare dalla notizia del giorno del 29 Novembre 2024, quella che per certi versi è giunta a sorpresa, per quanto fosse prevedibile, riguardante la disponibilità del Presidente ucraino Zelensky –disponibilità manifestata nel corso di una intervista rilasciata dallo stesso a Sky News–, ad accettare una tregua senza restituzione di territori ponendo come unica condizione, più per una questione di immagine che altro, non essendo certamente nelle condizioni per poter dettare condizioni, quella riguardante l’accoglimento della sua richiesta di entrare nella NATO.
“Se vogliamo porre fine alla fase calda della guerra, dobbiamo prendere sotto l’ombrello della Nato il territorio dell’Ucraina che abbiamo sotto il nostro controllo”, queste le parole del leader ucraino che ha poi aggiunto “Dobbiamo farlo in fretta. E poi sul territorio (occupato,ndr) dell’Ucraina, l’Ucraina può riportarli indietro in modo diplomatico“, palesemente pressato dagli eventi che nella stessa giornata gli hanno imposto di licenziare, dopo appena nove mesi dalla nomina, il comandante delle truppe di terra Oleksandr Pavliuk, in carica per soli nove mesi, nominando al suo posto Mykhailo Drapatyi.
Sempre nel corso della stessa intervista il leader ucraino ha aggiunto che a tregua concordata la NATO dovrebbe “immediatamente” attivarsi per proteggere le aree del Paese ancora sotto il controllo di Kyiv, sottolineando come questa misura sia di vitale importanza in quanto, come ha dichiarato “Ne abbiamo un disperato bisogno, altrimenti Putin tornerà”.
Un’affermazione che palesemente non può essere farina del suo sacco se solo teniamo in debito conto che il piano di pace avanzato a suo tempo da Putin prevedeva –e possiamo ipotizzare preveda ancora– il mantenimento in perpetuo da parte della Federazione Russa delle attuali regioni occupate (Crimea, Lugansk, Donestk ecc); una zona neutrale fino al fiume Dnipro e la parte rimanente (quindi da Kyiv verso ovest) libera di entrare nella EU ma non nella NATO, nonché la demilitarizzazione dell’intera Ucraina: un piano inaccettabile, per ovvie ragioni strategiche, da parte degli Stati Uniti che, come vedremo più oltre, stanno al momento affrontando diversi problemi dei quali il primo di alquanto difficile soluzione fintanto che Washington non avrà trovato il modo di scoprire cosa è esattamente l’Oreshnik e, soprattutto, come fermarlo.
Militarmente la guerra era già palesemente persa dopo i primi due, tre mesi dall’inizio del conflitto, ma in campo c’erano altri interessi a cominciare da quelli statunitensi relativi al ricompattamento di una NATO messa per certi versi non poco in crisi dalla firma anticipata del summenzionato Trattato franco–tedesco: un trattato nato dalla decisa volontà di una Germania oltremodo interessata a dare vita con la Francia ad una integrazione politico-militare–nonché fiscale a partire dalla quale puntare alla creazione di una struttura sovranazionale europea reale, ovverosia ad una entità geopolitica federale in grado di esprimere una politica interna e soprattutto estera del tutto autonoma rispetto alle desiderata di Washington.
Tanto per non parlare del sogno di Berlino di rendersi ancor più incisiva in ambito internazionale qualora avesse ottenuto, grazie ai buoni uffici dell’Eliseo, un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Da qui la partita Ucraina, una partita giocata da Mosca per muovere un attacco indiretto alla NATO puntando non poco su buoni rapporti con Berlino, sulla cui defezione non poco deve aver contato nel momento in cui Washington ha imposto una politica sanzionatoria che avrebbe penalizzato a tal segno Berlino da indurre la propria leadership politica a prendere le distanze da Washington. È in questo senso che Putin ha puntato non poco sui buoni uffici del Generale Tempo visto che quanto più fosse durato il confronto militare con Kyiv, tanto più l’esito le sarebbe stato favorevole.
Un esito perseguito con costanza e preparato con cura prevedendo pressoché ogni contromossa di Washington, almeno per quello che riguardava le sanzioni subito imposte da Washington , un po’ meno per quello che riguardava quel Nord Stream la cui imprevista distruzione ha costretto Mosca ad un abbraccio ben poco gradito con quello Xi Jinping del quale il Cremlino dubito si sia mai fidato veramente –e che l’ha costretta sin qui a fare buon viso a cattivo gioco pur avendo un asso (e temo non solo uno) nella manica: l’Oreshnik.
Un Oreshnik il cui recente impiego é per certo stato deciso anche affinché Beijing capisse che la strategia del prestatore di ultima istanza globale, la strategia del bottegaio assurto al rango di monopolista globale funziona fino ad un certo punto perché dal provincialismo politico che ancora affligge l’intero establishment cinese non si esce con le retoriche vetero-comuniste tanto care al Partito Comunista Cinese ed alla sua un po’ troppo antiquata, sul piano strategico, leadership.
Una leadership tutta orientata a rispolverare la demagogica e stantia carta terzomondista tanto cara alla Cina fin dai tempi della fallimentare epoca maoista: ché un conto è assurgere al rango di fabbrica del mondo, ma ben altro è assumere la leadership globale, se non di tutto, ma almeno di una parte del pianeta nella poco conciliabile dell’antiliberista liberista globale.
In definitiva la domanda cruciale odierna, quella da porsi, e che nessuno si è sino ad ora posto, è quella del titolo scelto per questo pezzo: “Oreshnik: perché solo ora?”.
Ed ancora: perché non chiudere la partita alla svelta almeno un paio di anni fa? La risposta è stata davanti a tutti pressoché da subito, così come da subito è stato evidente il perché la regione di Kursk non sia stata presidiata a dovere, come pure perché si sia concesso alle truppe di Mosca di entrarvi e di restarvi quando sarebbe bastato ben poco per contrastarne l’avanzata.
Il fatto è che a Putin serviva il dissanguamento della EU, la messa in crisi del suo potenziale bellico, la creazione dei presupposti per giungere ad una frattura intestina della NATO che è e resterà coesa a parole –nello specifico quelle dei Crosetto e delle Meloni, come pure dei Tajani e dei Draghi, delle von der Leyen e dei Macron di turno nonché di quelle dei vari Premier britannici, ma non più nel cuore della gente, soprattutto degli Zelensky in giro per il mondo che sono avvisati: mai fidarsi degli Stati Uniti e della EU, ovverosia degli “armiamoci e partite” degni di miglior causa in quanto se tutto questo capita a dei Curdi o a degli illusi Afghani va tutto bene, ma se capita a degli Europei la cosa cambia aspetto di parecchio, soprattutto quando, da qui in avanti a fare da promemoria vi sarà per i decenni a venire una Ucraina simil coreana.
Non è quindi un caso che il 29 Novembre la Tass abbia diffuso un interessante articolo dall’oltremodo significativo titolo “Romania, Poland, Germany, UK plan to divide Ukraine – Russia’s foreign intel” che nel sottotitolo ha riassunto laconicamente la situazione in fieri scrivendo “A total of 100,000 so-called peacekeepers are planned to be sent to Ukraine”, facendo riferimento a quanto espresso dal Russian Foreign Intelligence Service che ha posto l’accento su un presunto piano di vera e propria occupazione dell’Ucraina che, qualora attuato vedrebbe il Paese diviso tra Romania, Polonia, Germania e Regno Unito.
Stando a quanto riportato dall’agenzia russa alla Romania toccherebbe il presidiamento della costa del Mar Nero, alla Polonia il controllo delle regioni occidentali dell’Ucraina, alla Germania la supervisione del centro e dell’est del Paese; ed al Regno Unito il controllo delle regioni settentrionali, compresa la capitale: una soluzione che per certi versi può essere intesa come una sorta di vero e proprio escamotage per fare entrare, senza ammetterla effettivamente, l’Ucraina nella NATO.
Il tallone d’Achille di questa ipotetica mossa d’oltreoceano è però quello riguardante il supposto bisogno di Mosca di un tale scenario e quindi di una risoluzione pacifica o meno del conflitto: ma per la risposta dovremo attendere ancora qualche giorno o settimana.