Sono invisibili, sospesi e senza futuro. Ecco i giovani o non più giovanissimi che fanno parte della generazione voucher. Hanno tra i 25 e i 39 anni e sono quelli che hanno lavorato nell’ultima decade con ritenuta d’acconto, voucher o come volontari. Un popolo sommerso che non conosce diritti né coltiva grosse speranze per il futuro: visto che non hanno maturato contributi pensionistici o quanto meno raggiunto una stabilità economica.
Alessandro Pollice, 39enne romano, ha lavorato in maniera frammentaria negli ultimi 10 anni in diversi musei capitolini. Il copione è sempre lo stesso: lavoro con ritenuta d’acconto dai tre ai sei mesi (tetto di guadagno annuo massimo per legge sotto i 5.000 euro) zero diritti (ferie e malattie) o ammortizzatori sociali e della pensione nemmeno un vago miraggio.
“Ho sempre lavorato in archi di tempo che dovevano essere coperti come minimo da un contratto a tempo determinato, invece non me l’hanno mai fatto – racconta Alessandro a Ofcs Report – negavano che si trattasse di un rapporto lavorativo di tipo subordinato ma nei fatti lo era: svolgevo delle mansioni ed ero sottoposto a un capo”.
La storia di Alessandro rappresenta lo spaccato di molti operatori museali italiani, che nonostante abbiano costruito una professionalità in tanti anni di accoglienza e di guida all’interno dei poli culturali del nostro Paese, non sono riusciti ad ottenere un contratto stabile che gli permettesse anche solo di immaginare un futuro o metter su famiglia.
Il meccanismo che alimenta la voragine della precarietà
Il meccanismo che alimenta questa voragine di precarietà è il seguente: i musei esternalizzano a singole agenzie private la gestione del personale, creando un sistema per cui il lavoratore viene chiamato e pagato da queste società, ma nei fatti lavora presso strutture pubbliche. Il risultato è che più dipendenti, che lavorano nello stesso plesso museale, hanno contratti o tipologie di pagamento diverse a seconda dell’agenzia che li ha impiegati.
“È uno scarica barile, non esisti per loro, sei invisibile – spiega Alessandro – è una cosa tipica italiana: ormai la mia generazione è andata in fumo”. L’ex operatore museale romano, alle soglie dei 40 anni, si sente come un Don Chisciotte che porta avanti una battaglia, molto più grande di lui, contro logiche e interessi di fronte ai quali gli stessi colleghi hanno paura a schierarsi, non riuscendo così a creare un fronte comune per intentare un’azione sindacale.
Alessandro ha lavorato nell’ultimo anno presso il Museo del Vittoriano a Roma. Dallo scorso aprile sino a novembre è stato pagato con ritenuta d’acconto, l’ultimo trimestre con i voucher: 7 euro e 50 l’ora. La speranza era sempre la stessa: la possibilità di un’assunzione o quanto meno di un contratto a tempo. Ma terminata la mostra o l’evento culturale è scaduto ancora una volta il rapporto di lavoro. “Non abituatevi, non è il lavoro della vita, ci dicevano – ricorda il 39enne romano – ma alcuni di noi hanno continuato con un contratto a tempo determinato, mentre altri, come me, sono stati lasciati a casa”.
Un esercito di fantasmi fa muovere ogni giorno le nostre città, svolgendo dei veri e propri lavori di tipo subordinato, senza che ciò gli venga riconosciuto. Una giungla anche legislativa, viste le tante tipologie contrattuali o di pagamento, nate in Italia nel tentativo di gestire un mercato del lavoro sempre più flessibile. “Neanche posso appellarmi alla ingiusta causa di licenziamento perché non era posto in essere alcun contratto di tipo stabile – è lo sfogo di Alessandro – non mi rimane altro che fare pubblicità culturale contro chi ci vuole abituare a un orizzonte lavorativo, dove non sai mai per chi lavori: un gioco a scatole cinesi, per cui non vedi mai chi c’è dietro”.