Un proiettile che parte e una ragazza che si accascia, colpita alla nuca mentre passeggia accanto ad un’amica nei vialetti dell’università in cui studia legge. Nella cittadella universitaria, tra i dipartimenti di statistica e giurisprudenza, c’è il solito via vai di impiegati e studenti che popola ogni giorno l’ateneo e molti di loro, racconteranno agli inquirenti di avere sentito un “colpo sordo”, come se fosse in qualche modo attutito. Inizia così la storia dell’omicidio di Marta Russo, studentessa romana ammazzata con un colpo calibro 22, in una mattina di primavera di venti anni fa. Un omicidio senza senso, contro una ragazza normale che non poteva essere considerata un obbiettivo, in un luogo (l’università de La Sapienza) in cui nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Marta Russo verrà dichiarata morta dopo cinque giorni da quello sparo e i genitori della giovane vittima (gli unici a tenersi sempre, compostamente, fuori dalle polemiche) acconsentiranno alla donazione degli organi, immediatamente impiantati su cinque pazienti in attesa di un donatore. Un gesto meraviglioso che ha dato il via a una catena della solidarietà che vive ancora oggi. Il caso, esploso con una potenza dirompente nel cuore tormentato dell’università romana, venne immediatamente cannibalizzato dai media di mezzo mondo che vi si avventarono con una copertura (quasi) mai vista prima. Un omicidio su cui, nel dicembre del 2003, la Cassazione ha scritto l’ultima parola con la condanna di Giovanni Scattone (5 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio colposo) e Salvatore Ferraro, 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento. Sentenze definitive che se da una parte hanno chiuso il caso a livello giudiziario, a distanza di venti anni, continuano a suscitare polemiche. E d’altronde le polemiche ci misero un attimo ad esplodere.
Un processo, mille polemiche
Dopo che le prime piste investigative furono battute e quasi immediatamente abbandonate (una di queste portava a una ditta di pulizie che in quei giorni era impegnata proprio nel vialetto tra le facoltà di giurisprudenze e statistica) le indagini puntarono sul dipartimento di filosofia del diritto dove, sul davanzale dell’aula sei, gli esperti avevano rinvenuto una particella ritenuta compatibile con uno sparo. Da quella finestra, sosteneva la perizia, era partito il colpo. In questura si alternano gli impiegati, i professori e gli studenti che normalmente frequentano quell’ala dell’istituto: gli investigatori raccolgono testimonianze, annodano ricordi, tentano di stringere i tempi. A distanza di un mese dallo sparo, tra mille reticenze e racconti che spesso non coincidono, vengono comunque fuori i primi nomi di chi poteva trovarsi nell’aula sei al momento dell’esplosione del colpo. Sarà Maria Chiara Lipari (assistente universitaria e figlia di un ex parlamentare Dc), a indicare per prima i nomi di Gabriella Alletto (una segretaria amministrativa) e di Francesco Liparota, bidello laureato in legge che aspetta di diventare avvocato, come i presenti in quella stanza. La Lipari dirà agli inquirenti di avere riferito quanto visto anche al professore Bruno Romano, che in base alle accuse finisce agli arresti domiciliari con l’accusa di favoreggiamento. Ma è su Gabriella Alletto che si riversano le attenzioni dei pm Lasperanza e Ormanni: i due magistrati sottopongono la donna a una serie di interrogatori pesantissimi e il 14 giugno, a poche ore dall’ultimo interrogatorio della segretaria, Scattone, Ferraro e Liparota, vengono arrestati per concorso in omicidio. Le accuse sono pesantissime: «il delitto ascritto agli indagati – scrivono i giudici – è di una gravità sconcertante proprio perché il movente che ha determinato l’azione omicida è l’assenza di un movente specifico direttamente connesso alla vittima». La credibilità della testimonianza di Gabriella Alletto vacilla sotto i colpi dell’esercito di principi del foro che si occupa del caso e che espongono in aula le pressioni fatte dagli inquirenti durante i tanti interrogatori, ma viene considerata attendibile anche in seguito ai drammatici confronti in aula con i due imputati. Anche sulle perizie le opinioni saranno contrastate, e dal canto loro, i due assistenti universitari, figli della media borghesia del tempo e con una carriera in rampa di lancio, a quel delitto si diranno sempre completamente estranei. E poi l’arma, che non sarà mai ritrovata. E il movente, mai veramente ricostruito dalle varie sentenze. Dopo un vortice di rinvii, nuovi processi, interrogazioni parlamentari e scoop giornalistici costruiti a suon di cache pagati per ottenere un’intervista, la decisione salomonica dei giudici (Scattone ha sparato, ma senza volerlo. Ferraro c’era ma non poteva intervenire) scrive la parola fine a un dramma che, passati venti anni, provoca ancora dolore.