Il dis-accordo di pace in Medio Oriente. Se anche il ‘Piano-Biden’ non convince e divide
All’orizzonte vi è sempre il conflitto tra Israele e Hamas. La guerra tra lo Stato ebraico – mediaticamente isolato e giuridico-internazionalmente ‘già’, in pratica, ‘condannato’ per la sua legittima difesa dalla Corte internazionale di giustizia (Cig) e dalla Corte penale internazionale (Cpi) –, e il movimento terroristico – spalleggiato dall’Iran, sostenuto dalla sponda libanese dei combattenti di Hezbollah e indirettamente, quando non proprio apertamente, invocato come legittimo strumento di resistenza e di liberazione dagli intellettuali accademici di mezzo mondo – non sembra recedere di un passo. E questo non solo perché le operazioni sul campo possiedono, ormai avviata e attuata, una loro logica operativa, partecipata, per ragioni e obiettivi differenti, dalle due parti coinvolte, ma anche perché pare non convincere del tutto il cosiddetto ‘Piano-Biden’ per il cessate il fuoco tra i due contendenti, esso stesso divenuto, dal momento della sua rivelazione pubblica, un campo di battaglia interpretativa, un terreno di scontro ‘propagandistico’ e uno strumento di alimentazione di ulteriori nuove frizioni politiche, anche e soprattutto tra i sostenitori esterni della causa israeliana e di quella palestinese, sempre più agenti come tifosi invece che come analisti attenti e scrupolosi.
Il piano, prima presentato come bozza di risoluzione del conflitto israelo-palestinese in atto elaborata da Tel Aviv, poi annunciato ufficialmente come ipotesi accordale statunitense, prevederebbe tre fasi. La prima contemplerebbe una sorta di armistizio di sei settimane, in cui le armi tacerebbero per consentire lo scambio reciproco di prigionieri, civili, da un lato, e politici, dall’altro, con l’impegno delle Israel defense forces (Idf) di liberare le aree palestinesi più densamente popolate, riducendo, così, di molto il coinvolgimento dei civili in eventuali scaramucce militari, sempre eventualmente presenti dietro l’angolo. La seconda, più corposa e complessa, consisterebbe nell’accettazione da ambo le parti di un ulteriore periodo di cessazione del fuoco, per permettere tanto il completamento della restituzione a Israele da parte di Hamas di tutti i residui prigionieri, compresi i militari – questione recentemente mal digerita dal gruppo terroristico palestinese – quanto il ritiro completo delle forze armate ebraiche dal territorio di Gaza. Condizioni, queste, che, se rispettate alla lettera dalle parti, tradurrebbero l’armistizio in ‘pace permanente’, per quanto la realtà di questa locuzione, ovviamente anelata dai più, possa significare e valere in un’area a temperatura politico-conflittuale così costantemente elevata. La terza fase, infine, oltre a contemplare la restituzione di tutti i corpi degli ostaggi uccisi, avrebbe una valenza sia ‘rigenerativa’ sia maggiormente internazionalistica, nel senso che sarebbe incentrata sulla ricostruzione di Gaza, in un tempo variabile dai tre ai cinque anni, in cui protagonisti sarebbero sicuramente gli Usa grazie alla predisposizione di una sorta di ‘Piano-Marshall’ per i palestinesi, e altri Stati, che a partire da quest’ultimo indicherebbero le forme della loro partecipazione a questo segmento di tale roadmap.
Nonostante la delineazione di cotanto progetto di risoluzione progressiva e ragionata del conflitto tra Israele e Hamas, i problemi che esso non solo lascia irrisolti, ma che addirittura pone ex novo non sono per nulla trascurabili. E anche laddove il Piano trovasse applicazione, pur di dare respiro soprattutto ai civili innocenti di entrambe le fazioni, tali questioni aperte non potrebbero essere lasciate senza una loro disamina accurata e soprattutto senza una loro concreta soluzione. Innanzitutto il nodo Hamas. Coloro che tra gli israeliani più pacifisti e anti-governativi, orientati principalmente a ottenere risultati tangibili sul fronte degli ostaggi, vogliono che il Piano-Biden venga immediatamente accettato da Netanyahu, non tengono, a parere del primo ministro, in opportuno conto che ciò significherebbe interrompere, proprio in un momento topico, ovvero quello di maggiore cedimento di Hamas, la guerra al gruppo jihadistico palestinese, offrendo a esso su un piatto d’argento occasione e tempo per riorganizzare le sue forze, ritemprare le sue milizie e riarticolare la propria macchina bellica. Semmai proprio reimbastendo le relazioni, ufficiali ma soprattutto sotterranee, con alcuni interlocutori di area arabo-islamico-islamistica, ordinariamente pronti a reinfiammare il conflitto con Israele. Come, in effetti, sta già avvenendo al confine settentrionale dello Stato ebraico, dove le colline dell’Alta Galilea sono divenute lo scenario di un bombardamento dronico da parte dei combattenti del libanese Hezbollah, spina costante nel fianco delle Idf e distrattore sistematico dell’impegno militare israeliano. In ragione di ciò, Netanyahu viene pressato dai suoi ministri di estrema destra – in particolare da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – affinché non abbracci scriteriatamente l’idealità morale di una pace ‘a tutti costi’ senza considerare, per l’appunto, il costo specifico per Israele di questa, soprattutto in termini di aumento dei rischi per la sicurezza nazionale, provenienti sia dal vantaggio temporale, pratico-logistico e politico che ne trarrebbe Hamas sia dalla plurificazione dei fronti di attacco contro lo Stato ebraico, tradizionalmente circondato da configurazioni nazionali ostili. A questo si aggiunga che, proprio nel momento, seppur ancora bellicamente connotato, di una sorta di pausa di riflessione sul da farsi da parte di Israele, Ali Bagheri Bakri, nuovo ministro degli esteri della Repubblica Islamica dell’Iran, sarebbe già al lavoro per intrecciare nuove intese con i nemici di Israele. Innanzitutto, il sostituto di Hussein Amir Abdollahian, morto nel recente disastro aereo che ha coinvolto anche il presidente iraniano Raisi, è andato in visita a Beirut per incontrare il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, al fine di rinsaldare la collaborazione con la compagine che, dopo Hamas, rappresenta, in una perversa visione islamo-anti-giudaica largamente condivisa, l’altro apparato di resistenza armata nei confronti di Israele. In seconda battuta Ali Bagheri Bakri s’è diretto in Siria, dove sapeva di poter trovare calorosa accoglienza e ‘comprensione’ in chiave anti-israliana, vista non solo l’assonanza politico-strategica internazionale tra i due Paesi, ma soprattutto la condivisione dell’odio nei confronti dello Stato ebraico, macchiatosi dell’eliminazione fisica di alcuni pasdaran siriani (ma anche di altra nazionalità) in un attacco delle Idf contro una fabbrica della città di Hayyan, nei pressi di Aleppo. Dunque, a detta delle componenti oltranzistiche del governo Netanyahu, costui, laddove acconsentisse all’applicazione del Piano-Biden, senza considerare innanzitutto a quale scenario bellico-terroristico consegnerebbe Israele, produrrebbe un grave danno al proprio Paese e alla sicurezza della sua popolazione, proprio in un frangente della guerra, in cui, al contrario, si sarebbe potuto spingere sull’acceleratore per piegare definitivamente, e per di più in modo esemplare per le altre forze terroristiche anti-ebraiche, Hamas e i suoi più stretti collaboratori esterni jihadisti. E invece non resta che registrare come gli Houthi dallo Yemen ed Hezbollah dal Libano non facciano altro che erodere compulsivamente le resistenze militari israeliane, se non sfiancandole e/o fiaccandole, per lo meno impegnandole multifrontalmente, in tal modo agendo come de-concentratori dell’energia militare ebraica nell’unica direzione in cui essa vorrebbe orientarsi, ovvero Hamas, di cui quegli altri gruppi terroristici divengono automaticamente alleati. In tal senso dal presidente israeliano Herzog, che parla di ‘obbligo intrinseco’ per Tel Aviv di accettare nella forma predisposta dagli Usa il piano di de-escalation e di messa a tacere delle armi, al ‘ministro ostile’ interno di Netanyahu, ultra-filo-statunitense, Benny Gantz e ai parenti degli ostaggi, che spingono per una trattativa ‘col naso tappato’ con Hamas pur di recuperare qualche altro prigioniero ancora in vita, si opera un pressing notevole sul ‘governo Bibi’. Il quale, però, prende tempo per valutare che la propria reazione a tale insistenza endogeno-nazionale ed esogeno-internazionale contemperi tutti i rischi e i pericoli cui si vada incontro, laddove si accettasse a mani basse la proposta del buon Biden, dal suo versante troppo preoccupato che la guerra in Medioriente ‘disarmi’ il suo elettorato novembrino, al punto da fargli perdere la presidenza.
Per altro verso, il Piano-Biden, che, con l’immediatezza dell’interruzione del conflitto, intende porre le condizioni di un eventuale dialogo politico tra le parti, pure non riesce ancora a disegnare il quadro del post-Gaza e del post-Hamas, nonostante sia del tutto evidente alla maggioranza degli osservatori e degli analisti che per Israele la fase di strutturazione di un governo palestinese non possa che passare dall’emarginazione/espulsione totale di Hamas, come sostenuto chiaramente dal ministro della Difesa Aluf Yoav Gallant, mentre per i palestinesi questo dovrebbe costituire uno dei perni del loro futuro politico, se non esclusivamente, per lo meno in integrazione con altre forze che potrebbero assorbirlo, quale l’Autorità nazionale palestinese (Anp), nonostante quest’ultima non goda più di moltissimo credito in virtù della sua scarsa ‘resistenzialità’ militare dimostrata nel tempo nei confronti delle ‘angherie’ israeliane. Inoltre il Piano-Biden non è chiaro su un altro punto: la formazione di uno Stato palestinese. Che, se, vista dal lato israeliano, soprattutto governativo, fosse seriamente posta come condizione essenziale per l’avvio e/o il perfezionamento dell’intesa proposta, inficerebbe immediatamente l’accordo consacrato e santificato dal presidente statunitense; se, al contrario, vista dal lato palestinese, fosse esclusa come possibilità reale a priori dagli israeliani, lascerebbe lettera morta il testo bideniano. Tutto ciò all’interno di una situazione internazionale caratterizzata da un’insistenza senza precedenti in direzione della costituzione dello Stato di Palestina, cosa che ancora di più tende ‘la corda degli accordi’, prossima a spezzarsi se non si trovasse la quadra, visto che dimostrerebbe, paradossalmente (e anti-eticamente), la ‘perversa utilità’ del massacro del 7 ottobre 2023 a opera di Hamas. Che, a prescindere dalle sue effettive finalità, sarebbe riuscito a porre, nuovamente e con carattere di necessità, perentorietà e incontrovertibilità, sotto i riflettori globali la questione nazionale palestinese, fino a quella data dimenticata da tutti gli Stati, occidentali come mediorientali. E principalmente da quei Paesi che, nonostante fossero storicamente propensi al sostegno di quella causa, hanno poi firmato accordi commerciali e tecno-securitari con Israele – che la trascuravano e marginalizzavano –, tali, nella loro pregnanza e convenienza, da proporsi come istanze al coinvolgimento, in questa intesa con gli ebrei, di altri Stati tradizionalmente ostili a essi, come l’Arabia Saudita, pronta, quindi, a mettere una pietra sopra al proprio passato di divergenze con lo Stato ebraico per consegnare a esso addirittura il ruolo di paladino della difesa mediorientale e componente politico-nazionale indispensabile per la stabilizzazione di quell’area.
Il Piano-Biden, inoltre, prim’ancora di poter ipotizzare l’esclusione di Hamas da un governo post-bellico, assegna, comunque, al movimento jihadistico palestinese una particolare rilevanza nel progetto di riduzione dell’intensità bellica, in tale maniera legittimandolo come interlocutore necessario e indispensabile per la trattativa sulla pace. Ciò per Israele risulta una sconfitta doppia o comunque maggiore di quella sul campo, nella misura in cui accredita come polo contrattuale effettivo rispetto allo Stato ebraico quell’Hamas, che, a dirla tutta, proprio in piena guerra, a ridosso dell’uscita ebraica da Gaza, ancora poteva emergere letteralmente dal sottosuolo per gestire, alla luce del sole e con tanto di gradimento e sostegno, oltre che diretto interesse, della popolazione palestinese, la macchina amministrativa e burocratica. Quando, al contrario, se si ricorda, Netanyahu stesso e sodali di governo avevano indicato l’eliminazione del gruppo terroristico quale condizione di possibilità per l’interruzione delle attività belliche. Dunque, il Piano-Biden, per quanto evidentemente concentrato sull’aspetto fondamentale dell’arresto in assoluto dell’uso della forza militare nell’area mediorientale, in definitiva sembra sfidare Israele a rinunciare alla ragione principale per cui si era imbarcato in una risposta così massiccia al pogrom del 7 ottobre, ovvero la completa cancellazione di Hamas e la correlata elisione della sua significazione politico-resistentiva, che, comunque, Tel Aviv non le aveva mai riconosciuto, ma che, invece, aveva visto e sta continuando a vedere ammessa e accettata sia da determinate confraternite statuali islamo-islamistiche, in modo alquanto compatibile con certa storia anti-israeliana e anti-semitica, sia da ambienti intellettual-progressisti occidentali, sulla buona strada, oramai battuta da tempo, di un autolesionismo culturale e di un rinnovato odio ebraico, sempre più intrecciato a filo doppio con un maggiormente ‘edificante’ e spacciato come democratico e ‘legittimo’ neo-anti-sionismo, che preveda, però, la demonizzazione se non proprio l’eliminazione dello Stato di Israele.
Il quadro appena descritto si complica, poi, se, a fronte di tale ‘provocazione’ bideniana (e non solo sua), ci si mette pure Netanyahu e ministri a mostrare insofferenza anche nei confronti di un altro ipotetico interlocutore palestinese, più moderato ma chiaramente non strutturalmente amico di Israele, che è l’Anp, guidata dall’anziano Mahmoud Abbas. Che certamente non ci si poteva attendere spendesse parole dolci nei confronti di Israele a fronte della reazione militare che ha per forza di cose coinvolto, prima, una parte considerevole della popolazione di Gaza e, ora, quella di Rafah, ma del quale bisogna cogliere toni, modi e tempi in relazione alle sue esternazioni anti-israeliane, in grado di trasferire alla parte avversaria il messaggio implicito e tacito di una latente quanto concreta ed effettiva disponibilità a costituirsi come mediatore essenziale dentro una massa informe di raggruppamenti e sigle terroristicamente anti-ebraiche. Se anche l’Anp non dovesse essere giudicata idonea come sponda dialogica e punto di riferimento tra i meno ostili nei confronti di Tel Aviv nel panorama vastissimo di reali antagonisti dello Stato ebraico, in considerazione anche del risveglio, sul fronte settentrionale, di Hezbollah, allora il conflitto, invece di decrescere, potrebbe seriamente trovare sempre nuove ragioni per non terminare mai. Detto questo, però, va colto l’imbarazzo di Netanyahu che si trova accerchiato e compresso da una serie di questioni, interne ed esterne, che non lasciano a lui, come non avrebbero lasciato a qualsiasi altro capo di Stato impegnato in una lotta a trecentosessanta gradi e a tamburo battente contro un terrorismo rivolto a proprio Paese, la serenità e la lucidità di perseguire specifiche traiettorie militari e politico-internazionali in grado di porsi come compromesso accattabile dalle tante parti che sono coinvolte in questo conflitto e anche da quelle che in esso vogliono comunque recitare un ruolo di primo piano, pur di trarne, in qualche maniera, profitto. Il mondo intero, dunque, è ferocemente contro Netanyahu, ma sarebbe interessante immaginare che chi lo critica – in moltissime circostanze a ragione, pure da vendere! – si possa trovare nella sua medesima condizione, in cui dover scegliere e decidere tra la difesa a oltranza del proprio popolo contro un nemico, che, se non sconfitto ora, potrebbe tranquillamente riprendere la sua attività para-militare irregolare contro di esso, mettendone costantemente a repentaglio l’esistenza, e il cedimento a un accordo di massima, ricco di numerosissime incognite e questioni in sospeso e oscillanti. Accordo che, proprio perché in grado di fermare nell’immediato la guerra tra Israele e Hamas, in pratica aprirebbe inesorabilmente la porta a una guerra permanente e maggiormente allargata, in ragione della mancata estinzione, ed anzi, della rinnovata riorganizzazione del gruppo terroristico palestinese e l’attivazione di un complesso di relazioni invisibili, quanto concretamente ed efficacemente pericolose – e non solo per Israele, ma per quell’Occidente che esso stesso rappresenta nel quadrante mediorientale – , tra questo e le tante altre fenomenologie jihadistiche storicamente consolidate e anche quelle attualmente emergenti.
E allora chi potrebbe uscire vincitore e chi perdente nel caso il Piano-Biden trovasse accoglimento bilaterale? Sicuramente a passare all’incasso sarebbe in primo luogo lo stesso Biden, che mostrerebbe a livello internazionale sia che gli Stati Uniti siano ancora in grado di dettare le regole del gioco e di distribuire le carte sia che lui, quale presidente della più grande potenza mondiale, sia attore ancora largamente affidabile, cui si possa riconoscere ancora una volta il ruolo che attualmente ricopre e interpreta. Un segnale non indifferente tanto agli scettici di mezzo mondo, che lo considerano già ingurgitato dalla potenza politico-mediatica ed economica del prossimo ‘vecchio’ rivale Donald Trump, quanto ai suoi elettori indecisi, sul punto di abbandonarlo in assenza di una concreta assunzione di posizione sulla chiusura del capitolo bellico mediorientale. L’altro vincitore, a ben guardare, è sicuramente Hamas e il suo capo Yahya Sinwar, che, vedendo esaltata la sua posizione come interlocutore con Israele per conto dei palestinesi nella negoziazione della pace e anche, probabilmente – chi potrebbe escluderlo sin da ora? – quale protagonista, o comunque, interprete non secondario nella formazione di un nuovo esecutivo palestinese post-bellico (e forse all’interno di un erigendo Stato dei palestinesi), si confermerebbe nell’idea che squarciare ventri di donne gravide, mutilare anziani e bambini, tagliare seni e teste per esibirli pubblicamente possano essere considerati, a livello della comunità internazionale e anche dall’Onu, forme approvabili di una legittima resistenza all’occupazione territoriale del nemico, soprattutto quando questo si chiami Israele. L’altro vincitore, in modo più dimesso, ma sicuramente più essenziale, è il popolo palestinese, che potrebbe realmente prendere fiato in un conflitto così duro e cominciare a immaginare di costruire un proprio progetto di ripresa e principalmente statuale, con l’appoggio degli Stati musulmani, non solo di area araba, dell’Onu del Segretario António Guterres e, per l’appunto, del presidente Biden, oltre che, quasi certamente, di Unione Europea e Vaticano. Non rimangono, allora, che gli sconfitti. Netanyahu, dal punto di vista politico, in quanto incapace di realizzare l’obiettivo di una liberazione di Gaza da Hamas, sarebbe da considerare il primo dei perdenti, e ciò anche in virtù del fatto che la fine delle ostilità, soprattutto senza tutti quegli ostaggi che sosteneva di poter salvare attraverso le operazioni militari organizzate e realizzate sul campo, costituirebbe in sé l’atto finale della carriera politico-governativa del primo ministro israeliano. A meno di un colpo di scena che non è detto non possa emergere: internamente, grazie a un riorientamento in favore di Bibi di un popolo, che, in una buona sua parte, pur volendolo oggi politicamente morto, potrebbe anelare a ricandidarlo a tutore e difensore della nuova tenuta securitaria dello Stato ebraico; esternamente, in ragione di un riaccreditamento presso le cancellerie di molti degli Stati che lo avrebbero volentieri ‘esiliato’ dal panorama politico internazionale, come raccoglitore dagli Usa del testimone di stabilizzatore delle relazioni tra gli Stati dell’area mediorientale, in vista anche del più volte annunciato disimpegno americano dalla zona. Ma il vero sconfitto sarebbe da considerare proprio il popolo israeliano, che, con la riemergenza politica di Hamas nelle forme appena articolatamente supposte, vedrebbe le violenze tribali, patite per mano di tale gruppo terroristico il 7 ottobre 2023, completamente private della possibilità di ottenere giustizia, e anzi sublimate, da una cornice interpretativa pervertita, iniqua e degenere, come modalità di resistenza, per quanto immorali e malvage in sé, legittimate dal fatto di essere state provocate e indotte da anni di indebita e radicalmente feroce occupazione territoriale israeliana. Ritornello, questo, che, posto alla base di una narrazione anti-israeliana uni-forme e a-critica, consegna anche il Piano-Biden a nutrire il folto gruppo di iniziative e provvedimenti internazionali che, pur con l’intenzione di salvare il salvabile e di reagire immediatamente, come qualcuno ha sostenuto, all’‘ansia di pace’, potrebbe seriamente pregiudicare tanto l’autenticità dell’esegesi politico-morale delle brutalità anti-umane perpetrate a danno degli ebrei al confine meridionale con la Striscia di Gaza il 7 ottobre quanto l’immagine di Israele, ormai ‘eticamente’ compromessa, se è vero che lo Stato ebraico e Hamas, per certi versi sono ormai posti sul medesimo piano: negativamente, come produttori di violenza, positivamente, come interlocutori alla pari nel dialogo per la ricostruzione della pace in Medioriente.