Sui marciapiedi di Ankara la maggior parte delle ragazze camminano senza velo, con un jeans e una maglietta, proprio come le coetanee occidentali. Intanto da alcune auto di fianco al mio taxi spuntano mani di uomini dai finestrini aperti che scorrono il Tasbeeh, il tipico rosario dei musulmani. Qui laicismo e religione si fondono, convivono liberamente perché la Turchia ha rappresentato per anni tra i pochi Paesi arabi in grado di separare culto e secolarismo. È un Paese a parte anche nella cultura araba perché il vecchio padre della patria, Ataturk, ha sempre rivendicato la laicità dello Stato.
Mentre il taxi prosegue la sua corsa (“corsa” è la parola più appropriata perché qui si raggiungono velocità da Formula 1) tra l’aeroporto e l’hotel, osservo le gigantografie che ricoprono molti dei palazzi e dei grattacieli di Ankara che ritraggono il nuovo padre della patria: Recep Tayyip Erdogan. Sono i giorni che precedono l’anniversario del tentato colpo di Stato dello scorso anno, quando il ponte che a Istanbul collega l’Asia con l’Europa fu occupato da soldati e carrarmati, mentre ad Ankara gli elicotteri sganciarono bombe sul Parlamento. Era la notte tra il 15 e il 16 luglio del 2016, una data che Erdogan ha intenzione di scolpire nella memoria collettiva grazie ad un’attività di propaganda che ha poco da invidiare ai vecchi regimi sovietici o alla Cuba castrista: Ankara e l’Havana in questo caldo luglio turco sembrano due città gemelle, se qui i cartelli e i disegni disseminati in ogni angolo ritraggono Ataturk ed Erdogan, nella capitale centroamericana ci sono il Che e Fidel. La costruzione del culto è in fondo simile ad ogni latitudine, prevede uguali meccanismi. La celebrazione di una vittoria – come quella di aver sventato un golpe – è il fulcro di questo genere di propaganda.
Per l’occasione dell’anniversario il governo turco ha invitato ad Ankara oltre 350 giornalisti da tutto il mondo
Quasi tutti i Paesi sono rappresentati: ci sono colleghi da Bolivia e Venezuela, da Kirghistan e Vietnam, da Regno Unito e Francia. Probabilmente si tratta di una dimostrazione di forza da parte di Erdogan, vuol far vedere agli altri Paesi di avere il pieno controllo della Turchia a soli pochi giorni da una delle più grandi manifestazioni tenute dalle forze di opposizione. Infatti, tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio i membri del Chp, il partito repubblicano del popolo, ha organizzato una marcia da Ankara a Istanbul, culminata lo scorso 5 luglio con un sit-in di piazza in cui erano presenti oltre un milione di persone. Un evento che Erdogan non poteva reprimere a pochi giorni dall’anniversario del golpe perché la comunità internazionale sta monitorando con preoccupazione le evoluzioni dittatoriali del suo governo.
A un anno dal golpe oltre 100mila persone sono state arrestate, 50mila sono in carcere con l’accusa di aver partecipato al colpo di stato
In cella ci sono anche 150 giornalisti tacciati di aver fatto propaganda per i golpisti. Secondo il governo ad ordire il putsch è stato Fetullah Gulen, un miliardario islamista che da circa 20 anni risiede negli Stati Uniti. Eppure sul suo effettivo intervento non sono mai state raccolte prove certe. Tra le ipotesi apparse sui media internazionali c’è pure la teoria che sia stato lo stesso Erdogan a favorire il tentato golpe proprio per avere la possibilità di imporre con più forza la propria autorità nel Paese e procedere alle “purghe” contro i suoi avversari. Il presidente ha infatti proposto in questi giorni di eliminare l’immunità parlamentare (così da poter avere la possibilità di far arrestare anche i leader delle opposizioni) e ha manifestato l’intenzione di ripristinare la pena di morte. Una piega autoritaria che allontana sempre di più la Turchia dall’Occidente e vanifica l’altalenante percorso di questi ultimi anni che doveva portare il Paese della Mezzaluna rossa a fare il proprio ingresso nella Comunità europea.
I rapporti internazionali della Turchia sono complessi
Da un lato ci sono le “vecchie ruggini” con la Russia, dopo che il 24 novembre del 2015 nei cieli del confine turco-siriano venne abbattuto l’aereo russo Su-24. Ma da quella crisi i rapporti tra i due Paesi sono stati in parte ricomposti anche per l’identità di vedute e interessi che i due governi hanno in Siria e Libia. Più deteriorati appaiono le relazioni tra Usa e Turchia perché Erdogan ha chiesto più volte agli Usa l’estradizione del presunto golpista Gulen. Una crisi di rapporti complessa perché la Turchia è pure tra i Paesi aderenti alla Nato. E turbolenti sono i rapporti con l’Europa, soprattutto con la Germania. La deriva autoritaria di Erdogan è mal vista dalla Ue e le relazioni hanno raggiunto probabilmente il loro minimo storico
In tv, scorrendo tutti i canali turchi, scorrono solo e soltanto immagini di Erdogan
Persino le aziende che hanno comprato la pubblicità devono omaggiare l’anniversario del 15 luglio, marchi famosi come la compagnia telefonica Vodafone celebrano pomposamente la storica data “15 Temmuz”, 15 luglio, è scritto ovunque. Il rosso del marchio Vodafone si mischia perfettamente al rosso della bandiera turca. Al telegiornale e nei programmi non si parla d’altro che della grande vittoria del popolo turco che scendendo in piazza ha sventato il golpe militare e gli opinionisti attaccano il “terrorista” Gulen. Ecco, qui la parola “terrorismo” è stata sdoganata da Erdogan per indicare i golpisti. Un termine necessario a far presa sul fronte interno e sulla comunità straniera. «Dopo l’11 settembre negli Usa, dopo gli attentati al Bataclan in Francia, dopo le uccisioni in Inghilterra – spiega Erdogan in un suo discorso tenuto il 14 luglio nel palazzo dei congressi di Ankara a cui siamo invitati – loro hanno proclamato uno stato di emergenza e hanno adottato nuove misure per sconfiggere il terrorismo. Perché noi non possiamo far questo?». Il gioco di parole in una propaganda di semi-regime è fondamentale: inquadrare i presunti golpisti come terroristi può avere un effetto convincente. Eppure da un anno, da quel 15 luglio 2016, in Turchia vige ancora lo stato di emergenza e tutti i poteri sono accentrati nelle mani del presidente. Uno stato di emergenza che avrebbe dovuto terminare il 19 luglio di quest’anno, ma che è stato prorogato per altri tre mesi. E siamo alla quinta proroga.
I tg, tra le poche altre notizie che non riguardano le celebrazioni del golpe sventato, riportano la notizia dell’accordo con Italia e Francia
I due Paesi europei supporteranno la Turchia nel programma di costruzione di alcuni missili all’avanguardia con altissima capacità e potenza. Uno dei segnali che spingerebbe a far pensare che anche l’Italia ha mutato atteggiamento nella propria politica estera. Se il nostro Paese non può appoggiare la svolta autoritaria di Erdogan, almeno stringe accordi economici con il “Sultano”. Siamo pur sempre il terzo partner commerciale della Turchia con un interscambio di oltre 18 miliardi di dollari. E la Turchia può essere un player strategico sullo scacchiere libico perché ha una fortissima influenza su Tobruk e sul generale Haftar, che ancora ostacola l’accordo di unità nazionale che ha portato Sarraj a Tripoli. Per l’Italia è necessario imprimere in tempi rapidi una svolta in Libia sia per l’emergenza migranti che sta investendo il nostro Paese, sia per riprendere il filo degli investimenti commerciali con la Libia. Due obiettivi che solo attraverso una pax libica possono essere raggiunti. E se la Turchia, con la sponda della Russia, acconsentisse a fare dei passi avanti, l’Italia ne trarrebbe giovamento. Manna dal cielo. Quindi il nostro governo ha intenzione di stringere solidi accordi economici con la Turchia lasciando da parte le reprimende sull’operato autoritario di Erdogan. Perché la diplomazia si sviluppa anche (e soprattutto) attraverso i rapporti commerciali.
Siamo al 15 luglio, si sta in piazza come in moschea: uomini da una parte e donne dall’altra
Erdogan ha convocato i cittadini dinanzi alla piazza del Parlamento di Ankara alle 2.32 della notte. L’orario è simbolico, è lo stesso in cui piombarono le bombe nei pressi dell’edificio un anno prima quando il golpe sembrava essere riuscito. Ad essere maligni è un orario comodo anche per il fuso orario, per mostrare le immagini oltreoceano, negli Usa, lì dove risiede il “nemico” Gulen. Quando compare Erdogan sul palco, negli Stati Uniti sono infatti le 9 di sera. A pensar male – si dice – a volte ci si prende.
È una notte importante, probabilmente quella che mette fine al secolarismo in Turchia o che, almeno, lo insidia moltissimo. Le immagini sono eloquenti e se la forma è spesso sostanza, qui di sostanza ce n’è molta per capire che di qui in poi la Turchia non sarà più il Paese che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. In piazza le donne – quasi tutte con il burqa – sono separate dagli uomini. Si sta in piazza come in moschea: donne e bambini da una parte, uomini dall’altra. Tutte inneggiano al presidente, ma tanta parte della claque è venuta pure per il rappresentante dell’estrema destra, alleato di Erdogan. Ai piedi del palco ci sono poi i familiari delle 250 vittime che sono morte lo scorso 15 luglio nel corso del tentato colpo di stato. Ogni famiglia mostra un cartello con la foto del proprio familiare.
Sulla folla ci sono alcuni droni a riprendere le scene, per elaborazione della scenografia non c’è proprio nulla da invidiare ai concerti dei più famosi gruppi rock mondiali. Almeno fino a quando uno dei droni nel corso della notte cade sulla folla provocando 11 feriti.
Ad indicare la svolta islamista del Paese, oltre alla separazione tra donne e uomini, la prima parte della manifestazione vede per protagonisti i capi religiosi. Il muezzin di Ankara, la più alta autorità religiosa del Paese, intona canti e preghiere per circa un’ora. Dopo, solo dopo, arriva Erdogan. «Taglieremo la testa ai traditori, li schiacceremo come serpenti, Allah è grande» – alcune delle sue frasi. A pochi giorni dalla presunta uccisione del capo del Califfato, al Baghdadi, sulla schiena corre il brivido che l’Islam più estremo abbia trovato un nuovo capo spirituale. La differenza è che Erdogan ha un vero e proprio Stato alle sue spalle.
Un Paese contraddittorio che ancora mischia, talvolta in forme estreme, laicismo e religione
Ad Ankara un turista può scegliere di andare in uno dei centri commerciali nei grattacieli della città e sentirsi come a Londra o a Parigi. Nei ristoranti si può mangiare un ottimo fish&chips oppure gustare un tipico mercimek. Un Paese che vuole mantenere la propria identità senza però rinunciare ad avere rapporti con l’Occidente. Non fosse altro che oltre il 70% dell’economia turca è strettamente dipendente dall’Europa. Se quella del 15 luglio sia stata una prova di tentata democrazia o il principio dell’ennesima svolta per portare la Turchia ad una deriva autoritaria, ancor più incisiva sotto il regime di Erdogan, lo dirà soltanto il tempo.
La folle corsa del taxi riprende velocissima per portarmi in aeroporto. Dall’aereo, a 5 mila metri di altezza, tutto sembra più piccolo, non più chiaro come spesso accade a guardare le cose da una prospettiva lontana. E Istanbul con i suoi ponti sul mare sembra bella e confusionaria come sempre. Qui neppure la distanza fa chiarezza, tutto sembra sempre in movimento. È proprio un Paese a parte, ma ad uno snodo decisivo per la sua storia.