Continuano a far discutere le dichiarazioni di Ri Yong Ho, ministro degli esteri nordcoreano,
subito dopo l’intervento di Donald Trump all’Onu. “Le minacce di Trump – dichiara l’esponente del regime – rappresentano un’autentica dichiarazione di guerra e la Corea del Nord risponderà a questa provocazione abbattendo i caccia americani anche se non si trovassero all’interno del territorio di Pyongyang“.
Una minaccia, questa, che segue la decisione di Washington di inviare dei bombardieri a ridosso delle coste coreane. Partiti dalla ormai famigerata isola di Guam, lo scenario ideale nella mente di Kim per il futuro scontro con gli Usa, e seguiti poche ore dopo da altri f-15c da una base militare del Giappone nelle intenzioni di Trump servirebbero a dimostrare al regime coreano la potenza dell’arsenale Usa che, in caso di ulteriori provocazioni, verrebbe scagliato su Pyongyang senza troppi ripensamenti. Al Pentagono, dopo numerose critiche sul presunto immobilismo statunitense, stavolta si è optato per la linea dura.
“Tutte le opzioni sono sul tavolo” dicono da Washington aggiungendo che “in caso di ulteriori provocazioni offriremo al Presidente le soluzioni necessarie per porvi fine”. Provocazioni a parte l’opzione militare, per entrambe le parti, rimane abbastanza improbabile, in primo luogo per gli effetti devastanti che avrebbe in caso di impiego dell’arsenale atomico e della Corea del Nord e degli Stati Uniti ma anche perché, senza un appoggio, anche velato, di Cina e Russia, vere detentrici di quell’area di influenza, l’escalation potrebbe sfociare in una crisi ben più ampia e dalle conseguenze imprevedibili.