La sentenza emanata nei confronti del generale Mario Mori è parte integrante di una commedia che in Italia va avanti da troppi anni, con la regia di un apparato giudiziario evidentemente non adeguato alla realtà moderna e al momento storico che stiamo vivendo.
Il persistere della minaccia islamista, il fenomeno dell’immigrazione selvaggia ed incontrollata, il perdurare di uno stato di profonda crisi del nostro Paese provocato da una parte della politica che, senza scrupoli e per tornaconto personale, ha azzerato le potenzialità dei risparmiatori italiani, sembrano non attrarre più di tanto in primis, l’attenzione della magistratura, se non nell’emergenza e, secondariamente, quella dei giudici che, chiamati sporadicamente a sbilanciarsi, in modo pericoloso, tendono a sminuire l’entità delle problematiche loro sottoposte, presumibilmente in nome del quieto vivere.
Una soglia dell’attenzione che improvvisamente viene elevata allorquando si presenti l’occasione di far parlare di sé, quando si cerchi il male anche dove non vi sia, quando i servitori dello Stato tentino di colmare le lacune di un apparato legislativo vetusto, fatto di leggi inadeguate che la classe politica in campo non riesce, o non vuole, attualizzare.
Si rifletta anche solo per un momento se nei vari casi in cui la magistratura “si è chiamata in causa”, dal caso Abu Omar, a quello del capitano Ultimo, fino ad arrivare al presunto patto Stato-mafia, gli imputati, indistintamente, avessero agito per qualsivoglia tornaconto personale. E se non vi fosse traccia di un indebita appropriazione di beni o servizi, per quale altro motivo alcuni servitori dello Stato avrebbero dovuto agire nei modi e nei tempi che la solerte magistratura ha voluto tracciare?
Proprio da qui dovrebbe partire una seria riflessione sulla reale volontà di tutelare in modo adeguato il comune cittadino dalla mafia, dalla criminalità o dal terrorismo.
Certo, taluni sostenitori dello “stato di diritto ad ogni costo” potrebbero controbattere che gli indagati si erano spinti troppo oltre, abusando della loro condizione di funzionari statali, patteggiando con i mafiosi, sequestrando e torturando solerti sostenitori di una religione di pace, omettendo dolosamente di sottoporre a perquisizione covi di latitanti. Ma il comune cittadino vi risponderebbe che tutto questo non interessa se è servito a salvaguardare la sicurezza della collettività.
Il sentenziare la colpevolezza di uomini che, rinunciando a privilegi o tornaconti personali, hanno dedicato la loro vita e la loro carriera ad assicurare continuità ad un dignitoso sistema di vita sociale improntato sulla sicurezza dei cittadini, è un chiaro sintomo che il nostro Paese sia completamente da rifondare, a cominciare proprio da chi è chiamato a esprimersi sull’altrui operato.
E, comunque, onore a chi degnamente ci ha servito. In Italia, a volte, una condanna, vale una medaglia.