L’ Europa del nuovo presidente Ursula von der Leyen è nata sul tema del climate change, in particolare sul Green Deal europeo, che dovrebbe prevedere un percorso per una transizione giusta e socialmente equa. L’Europa dovrebbe indicare, insomma, il cammino da seguire con l’ambizione di diventare il primo continente a impatto climatico zero. La normativa europea sul clima dovrebbe sancire per la prima volta un obiettivo strategico chiaro: la neutralità climatica dell’UE entro il 2050 per emettere meno biossido di carbonio ed eliminare dall’atmosfera quello emesso. Per raggiungere l’obiettivo dichiarato sarà necessario estendere ad altri settori il sistema di scambio di quote di emissione che già aiuta l’UE a ridurre le emissioni dei settori energetico e industriale. Lo sviluppo di fonti di energia più pulite e di tecnologie verdi dovrebbe consentire di produrre, viaggiare, consumare e vivere rispettando di più l’ambiente, attraverso anche lo sviluppo di un’economia circolare che protegga la biodiversità.
Questo, al momento, il progetto. Ma in pratica il percorso rischia di essere lungo e tortuoso. Molti Paesi europei (vedi la Polonia ad esempio), non hanno intenzione di adeguarsi agli standard produttivi green perché la riconversione costerebbe troppo alle casse dello Stato. In altri Paesi, come l’Italia, la situazione è alquanto problematica anche se gli slogan si sprecano (vedi la plastic tax).
Il caso Italia
Il Governo Conte ha dichiarato l’obiettivo primario di un’Italia più verde attraverso la rigenerazione urbana, la riconversione energetica e lo sviluppo di fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto ai cambiamenti climatici. Addirittura il Premier ha parlato di una politica ambientale orientata a fare entrare questi temi anche nella nostra Costituzione.
Eppure è forte la sensazione che siamo di fronte ad un nuovo deal “all’italiana”. Infatti, lo scorso ottobre un centinaio di attivisti per l’ambiente hanno occupato simbolicamente un sito di raffinazione a Napoli est per protestare contro il blocco delle bonifiche. Poco dopo, nello stesso mese di ottobre, una importante compagnia petrolifera annuncia una “nuova amicizia” che la vede partner e sostenitrice della Fondo Ambiente Italiano, per la cura, tutela e valorizzazione del patrimonio storico e culturale del nostro Paese.
Nel mese di dicembre Eni annuncia l’accordo con il Gruppo Ospedaliero di San Donato per la collaborazione tecnica e scientifica nell’ambito delle attività di formazione, prevenzione, promozione e tutela della salute nell’ambiente di lavoro e per la realizzazione di campagne pubblicitarie, materiale divulgativo e informativo, in Italia e all’estero, con lo scopo di diffondere la cultura della promozione, garantendone la valorizzazione e la messa a fattor comune delle best practice e delle competenze sviluppate nei relativi ambiti istituzionali. Si percepisce la sensazione che queste iniziative possano in qualche modo spostare il focus. Bellissime iniziative, per carità, ma in concreto quali sono i reali impegni? E quale il commitment?
La politica è invero molto esitante e ne è una prova tangibile anche il mancato accordo tra i quasi 200 paesi riuniti a Madrid per la COP25, la Conferenza mondiale dell’Onu sui cambiamenti climatici, dalla quale arriva forte l’eco degli ambientalisti secondo i quali “i leader politici non hanno mostrato alcun impegno a ridurre le emissioni, chiaramente non comprendendo la minaccia esistenziale della crisi climatica. L’accordo di Parigi potrebbe essere stato vittima di una manciata di potenti economie del carbonio”.
Una cosa è certa: l’ultimo report dell’Enea sull’energia in Italia ha impietosamente evidenziato che non si rilevano riduzioni nell’impatto di CO2 e che le rinnovabili non crescono, mentre le fonti energetiche di origine fossile rappresenteranno ancora la principale fonte di approvvigionamento. Circostanza evidentemente non rivoluzionabile nell’arco di durata del mandato governativo.
E poi, non fa forse parte del new green deal il recupero, la bonifica e la riqualificazione dei siti storicamente inquinati nel nostro Paese? Gioverà forse ricordare che l’Ispra ha individuato sul territorio italiano 12.482 siti potenzialmente contaminati, alcuni dei quali presentano anche un elevato rischio sanitario. E che dire a proposito delle incompiute opere di bonifica dei 58 siti di interesse nazionale?
Persino sul dossier ex Ilva, sul tema ambientale, i sindacati denunciano che la multinazionale indiana Arcelor Mittal non abbia fornito una concreta programmazione di interventi certi per il risanamento ambientale e le bonifiche della provincia ionica.
Vedremo presto se si tratterà di un commitment concreto oppure di un altro slogan che suonerebbe meglio come “green new deal all’italiana”.