Ciao Maestro: l’inchino e il pianto di Roma per Gigi Proietti.
Roma cruda, Roma nuda, Roma piange. Proprio durante le ore in cui mezza Italia scopre il finale del più grande romanzo televisivo capitolino ad andarsene è stato l’icona, la maschera di quella romanità, ora così tanto cambiata in cinquant’anni, da Manzotin al Samurai.
Quella di Proietti non era la romanità di Sordi, nato giusto giusto cento anni fa, né quella di Manfredi, col quale però ha condiviso ruoli e caratteristiche simili. Proietti, prediligendo per tutta la vita il teatro al cinema e alla televisione, ha optato per una scelta intima e personalissima, di nicchia, affacciandosi però ovunque, da Tosca a Steno, da Largo Arenula al Globe di Shakespeare. Nemmeno Sordi o Manfredi, più vecchi di lui di soli vent’anni, c’erano riusciti.
Grazie un sodalizio tanto breve quanto iconico, quello con Enrico Montesano, la coppia tra Mandrake e Pomata ha fotografato la romanità di quegli anni tra piazza dell’Ara Coeli sino a Tor di Valle. E fu così che un B-movie, quasi dimenticato al di fuori del Grande Raccordo – e che costando poco alle tv locali, veniva trasmesso continuamente – divenne una Bibbia di quella romanità che non era più quella della Magnani o di Fabrizi, né quella borghese di Sordi, ma una ancor più genuina. Verdone lo avrebbe compreso anni dopo, rappresentando personaggi veri, seguiti per strada e copiati. Certe scene non le avevamo viste mai.
Ci mancherà Gigi Proietti